Anche le imprese vanno riformate di Alfredo Recanatesi

Anche le imprese vanno riformate CRESCITA TECNOLOGICA E PIÙ Anche le imprese vanno riformate Alfredo Recanatesi IL convegno sulla competitività dell'industria italiana che la Confindustria ha organizzato a Torino ha preso l'avvio da una apparente contraddizione: l'intento dell'iniziativa era palesemente quello di rafforzare l'attenzione sulla perdita di competitività del sistema produttivo italiano e di caldeggiare le misure ritenute atte ad arrestarla, ma è stata impostata su un preventivo sondaggio della Abacus secondo il quale le imprese, o almeno le piccolo-medie che costituiscono l'ossatura del sistema italiano, si ritengono competitive e capaci di reggere l'impatto di una concorrenza che la globalizzazione rende sempre più aggressiva. Una contraddizione non solo apparente. Che gli imprenditori si ritengano competitivi potrebbe essere considerata una tautologia dal momento che, se non lo fossero, potrebbero essere al più ex-imprenditori espulsi dal mercato e ignorati dai sondaggi. Ma questo aiuta a capire che la questione non può essere affrontata movendo dalle condizioni delle singole imprese perché il sistema nel suo complesso, e la sua adeguatezza rispetto alla realtà e alle attese del paese, non può essere definito come sommatoria delle qualità e dei problemi delle unità imprenditoriali che lo compongono. La criticità del sistema, infatti, potrebbe essere data dal fatto che le imprese dalle quali è formato sono deboli e scarsamente competitive, ma anche, e nel caso italiano soprattutto, dal fatto che quelle imprese, pur valide e profittevoli, sono troppo piccole per costituire un sistema forte. La Confindustria interpreta la perdita di competitività nella chiave della prima ipotesi: la competitività del sistema è debole, quindi occorrono politiche che rafforzino le smgole imprese; di qui la richiesta di moderazione salariale, di flessibilità, di una minore fiscalità da finanziare con tagli ai costi dello stato sociale, di efficienza della burocrazia e di tutte le «riforme» fatte, da fare, da rifare, da rafforzare. Riforme che creano precarietà, riduzione delle tutele, comunque un arretramento rispetto ai raggiunti livelli di benessere, non solo materiale. Ma le singole imprese sono già competitive, come quel sondaggio ha accertato. Se ne può dedurre che il problema stia da qualche altra parte, forse nella stessa tipologia prevalente delle imprese che potrebbe non corrispondere al modello più adeguato per un paese evoluto, benestante, maturo come l'Italia. Forse indagando in questa direzione potrebbe delinearsi una soluzione per accrescere la competitivi¬ tà del sistema senza inversioni di marcia lungo la strada del progresso del benessere economico e civile. Da tempo siamo tra quanti argomentano che una alternativa al sostegno alle imprese così come sono oggi può essere data da politiche che inducano una loro evoluzione tipologica nella direzione soprattutto di un superamento della loro dimensione ridotta, prevalentemente ancora familiare, per favorire la loro crescita, il loro accorpamento, in definitiva la costituzione di imprese di dimensione più adeguata a quella che i mercati hanno raggiunto. Ora queste tesi trovano conforto nella fioritura di nuovi studi che il sito di analisi economiche lavoce.info ha il merito di pubblicizzare. Ne vengono conferme sulle difficoltà della piccola dimensione ad affrontare gli investimenti nella crescita tecnologica e nel livello di specializzazione; e interpretazioni della realtà che imputano la bassa crescita dell'economia anche al fatto che imprese - ripetiamo: anche valide - rinunciano a crescere per non superare la dimensione che consenta a una famiglia di governarle. Per un verso, quindi, il nostro paese esprime l'elevato tasso di imprenditorialità che la Confindustria giustamente vanta, ma jer l'altro, per dirla tutta, limita 'utilizzo di questa pur preziosa dote al servizio di interessi circoscritti come quelli della famiglia ai quali, di conseguenza, rimangono subordinati quelli più generali, i quali postulano che una impresa, se valida, cresca, estenda la sua govemance, si istituzionalizzi come patrimonio non di singoli, ma di collettività. Se questo avvenisse, non sarebbe necessario difendere la competitività del sistema produttivo compensando i limiti che derivano dalla ridotta dimensione media delle pur valide imprese che lo compongono, e un tasso di crescita più elevato potrebbe risultare da un aumento dei contenuti di innovazione, qualità e specializzazione delle produzioni italiane piuttosto che da una compressione dei costi delle produzioni attuali. Secondo alcuni studi, questa possibilità c'è e qualcosa, anche se molto lentamente, si sta movendo come conseguenza di mercati finanziari più articolati ed efficienti, di una maggiore autocoscienza delle minoranze azionarie e di norme per una loro maggiore tutela, delle privatizzazioni che hanno diffuso la cultura della partecipazione al rischio di impresa. Possibilità ci sono, e sarebbe utile che fossero discusse senza pregiudiziali sulle terapie. E soprattutto senza muovere dall'assunto secondo il quale l'impresa così com'è oggi va bene, e da riformare è solo ciò che ne sta fuori.

Luoghi citati: Abacus, Italia, Torino