TIKRIT Aspettando l'ultima battaglia di Mimmo Candito

TIKRIT Aspettando l'ultima battaglia ESTREMA RIDOTTA DEL REGIME VEDE DISTRUTTI I SIMBOLI DEL SUO BENESSERE E SI PREPARA ALLO SCONTRO FINALE TIKRIT Aspettando l'ultima battaglia Mimmo Candito Per chiudere il conto, pare che manchi solo Tikrit. Carri e cannoni della 3a divisione di fanteria lasciano Baghdad verso Nord. I bombardieri hanno cominciato già il lavoro. Ora, perduta sotto le grosse colonne di fumo che segnano l'impatto rovinoso delle megabombe americane, Tikrit consuma lentamente le sue ore finali di città ancora saddamita, anzi di morente capitale saddamita, ultimo baluardo d'un regime che non c'è più, di un potere che è crollato miseramente, di un dittatore che s'è messo addosso un lenzuolo bianco (del morto o del fantasma, ancora non si capisce bene). E però se c'è un solo posto negli spazi immensi di quest'Iraq disastrato, un solo posto dove ancora oggi si possa trovare qualcuno che abbia il coraggio di dire che sì, che a lui dispiace che il Raiss abbia perduto la partita, e che anche subito sarebbe pronto a tornare alla vita di prima, questo unico posto è sicuramente Tikrit. Capirlo è facile. Era un piccolo borgo di campagna, poco più d'un villaggio di poveracci lungo la strada che porta verso le montagne; la carovane ci si fermavano malvolentieri, perché quei tikriti erano proprio gente barbara, scortesi, privi d'ogni senso di ospitalità, attaccabrighe, anche ladroni sfacciati. E il Tamerlano, un giorno che c'era passato dentro per qualcuna delle sue scorrerie, nel suo stile sbrigativo aveva provveduto a imporre a quella gente una crudele lezione, facendo ammonticchiare nella piazza del villaggio una piramide fótta solo con le teste tagliate dei suoi scortesi ospiti. I tikriti avevano però anche una storia che gli dava qualche brivido d'orgoglio, quando la raccontavano i vecchi: una storia che ricordava come proprio in quel buco puzzolente e senza vita fosse comunque nato un gran figlio della nazione araba, forse il più grande di tutti. Il generale Salah Ai-Din. Sì, il Saladino che nel XII secolo riconquistò alla bandiera con la Mezzaluna crescente la città bianca di Gerusalemme, strappandone le mura merlate, le moschee ombrose, i sacri luoghi del Sepolcro cristiano, dalle spade abbandonate nella polvere dai Crociati franchi. Quella di Salah AiDin fu l'ultima grande vittoria dei popoli arabi contro il mondo cristiano, mai più la bandiera verde riuscì a sventolare così alta, più della croce, mai più gli arabi riuscirono a sottrarsi a un lento declino, prima con i mongoli venuti dall' Oriente a far l'Impero Ottomano, poi con le potenze coloniali europee sedutesi sul trono della Sublime Porta nel dominio delle terre che s'allargavano pigre verso l'Asia. E al condottiero Salah AiDin volle richiamarsi (con qualche presunzione di troppo, par di capire dai risultati odierni) il nuovo figlio illustre di Tikrit, Saddam Hussein, proponendo di sé l'immagine della reincarnazione di quel potente guerriero, signore assoluto lui ora, e guida, e trascinatore, del riscatto nazionale dei popoli arabi. Le bombe degl'invasori sono sempre irrispettose; se queste degli americani saranno state nella media, allora si sarà già consumato anche l'oltraggio ultimo a quel sogno panarabo, perché avranno buttato giù il grande arco trionfale che Saddam s'era fatto costruire all'ingresso della città, con un murale che lo disegna a cavallo d'un puledro bianco che scalpita e quasi segue l'invito all'at¬ tacco che il suo cavaliere lancia puntando verso occidente una scimitarra d'argento. Era un «manifesto», il simbolo d'un proclama di guerra e di vittoria (ma, certo, in questi giorni parlare di guerra e vittoria in casa di Saddam non pare opportuno). Quel vecchio posto fetido, del quale mercanti e cammellieri si guardavano bene dal richiedere rifugio per la notte, se proprio ne potevano fare a meno, Saddam lo aveva trasformato completamente, come solo un mago con la bacchetta magica può (o come comunque può un dittatore assoluto, che non deve render conto a nessun altro che a se stesso: pensiamo al «maresciallo» Mobutu che s'era fatto costruire un castello e un aeroporto nel cuore più buio della giungla africana, in quel pezzo di foresta dov'era nato e dove godeva a tornare da ossequiato potente della terra). Allargate le antiche piste di terre, asfaltate le strade, ampliato il ponte sul Tigri, costruite moschee, fatti sorgere ovunque giardini e fontane, inventatasi perfino un'università, s'era poi costruito per sé anche uno dei suoi 78 Palazzi Presidenziali. Che si chiama- va, anche questo. Palazzo, ma poi in realtà erano 2 grandi palazzoni bianchi, 5 altri edifici per gli ufficiali della sua Guardia, un vasto parco, una piscina, e grandi viali ombrosi. Questo, in superficie, cioè per quello che si può vedere passeggiandoci dentro. Ora le bombe americane lo hanno sfondato e scassato, e di quello che lì c'è si vede ormai poco, tra il fumo nero, le fiamme e le macerie ammassate dovunque. Il problema però resta sempre quello che c'è sotto la superficie, che comunque non si vedeva prima e non si vede ora: ed è - o almeno così giurano gli americani, che son riusciti ad acchiappare perfino qualche ingegnere jugoslavo che aveva provveduto a dirigere una parte dei lavori - è un'immensa città sotterranea, un gigabunker collegato da lunghi corridoi, organizzato come una confortevole residenza per qualche ospite che magari sarebbe stato costretto a non amare troppo la luce del sole, almeno per qualche tempo. Di queste rivelazioni clamorose, s'è ormai imparato a sufficienza ad avere legittimi sospetti. Ma proprio per questo legame stretto che Saddam aveva intrecciato con la sua città, l'ipotesi del gigabunker ha una credibilità possibile. Tutta la cerchia più intima del potere del dittatore veniva dalla sua tribù tikrita, i famigliari - fratelli, fratellastri, cognati, cugini, zii, nipoti, suoceri, parenti d'ogni ordine e grado - erano diventati i guardiani del suo potere e i privilegiati padroni della Nomenklatura di regime; e a piene mani il Raiss aveva sparso la propria magnanima benevolenza sui concittadini, realizzando in un ex villaggio infrastrutture da grande metropoli e consentendo privilegi e prospettive di benessere a chiunque avesse nel proprio cognome la dizione «Al-Tikrit». Ora che gli americani stanno distruggendo tutta quella sovrastruttura saddamita, non crolla solo una dittatura, e un potere statale; crolla anche la vita privata di gran parte di questa società tikrita. Crolla la sua storia passata, crolla ogni sua speranza di futuro. Un mondo finisce, finiscono un tempo e un regno. Nel cimitero che sta alla periferia della città, Saddam aveva fatto costruire un gran mausoleo in memoria del padre: lo aveva disegnato lui stesso, con 35 colonne (gli anni del padre, alla morte) e una cupola alta 28 metri (in ricordo della nascita dello stesso Saddam, il 28 aprile del '37). Dietro i fumi che s'alzano dalla città non si vede bene se la cupola sia ancora rimasta a ricordare un dittatore che non c'è più. L'antico villaggio era malfamato come covo di ladri che le carovane evitavano. Tamerlano punì la poca ospitalità dei locali elevando una piramide con le loro teste mozzate L'armata di Bush punta sulla città natale di Saddam, dove veniva selezionata la sua classe dirigente fra i parenti e i membri della tribù locale Qui vide la luce il «feroce Saladino» vincitore dei crociati Ora le bombe Usa sbriciolano le grandi, opere pubbliche costruite dal Raiss che a lui diceva di ispirarsi Una foto scattata dal satellite di un sito presidenziale a Tikrit; della città natale del Raiss esistono pochissime immagini Soldati Usa su un carro armato: Tikrit è accerchiata, la battaglia è imminente

Persone citate: Mezzaluna, Saddam Hussein, Saladino, Salah

Luoghi citati: Asia, Baghdad, Gerusalemme, Impero Ottomano, Iraq, Tikrit, Usa