A bottega d BURRI

A bottega d BURRI IL LATO PRIVATO DELL'ARTISTA: UNA CELLA SPOGLIA, UNA BRANDA MILITARE E UN PARAVENTO FATTO CON LA CARTA DI GIORNALE A bottega d BURRI Angelo Canevari ROMA fine Anni 40 inizio dei 50 era una città di podisti: i mezzi pubblici erano quasi inesistenti; chi aveva i soldi prendeva le camionette, catorci rappezzati, quasi sempre reperti bellici. Sulle camionette la formazione fissa era quella del grappolo umano: ogni volta un'avventura. Capovolgimenti, scoppio di pneumatici, liti furibonde, tentativi di linciaggio, qualche cazzotto dato o ricevuto dal conducente. I bighetti distribuiti per la corsa erano quelli, numerati, delle lotterie di beneficenza. lo, a diciotto anni, preferivo la cosiddetta «affettata»: ero equipaggiato sullo sportivo: scarpe di mio padre con suola in gomma, bicolori. Anni 30, che avevo scovato in un baule nel sottoscala di casa; erano strette ma con l'uso si erano allargate. Avevo un vestito chiaro ricavato da una tenda, di tessuto autarchico; questo vestito seguiva fedelmente il volgere delle stagioni umide-calde-secche. Era come un barometro, variava a seconda del clima, si restringeva e si allungava. Gli amici seguivano perplessi quelle metamorfosi. Partivo da viale Giulio Cesare 51, dove abitavamo al «Villino Pineschi» costruito nei primi anni del secolo da una signora chiamata «l'americana»; era stato concepito come abitazione per artisti, con architettura meno lussuosa ma anche meno «svizzera» degli «Studi Corrodi» al lungotevere Arnaldo da Brescia. Dislocati sui tre piani vi erano studi ampi e luminosi con annesse le relative abitazioni. In quella casa - circondata da un bel giardino, con enormi piante di glicine che ne ricoprivano le pareti quasi interamente e che quando fiorivano erano un'apoteosi di violetti - vi avevano vissuto artisti straordinari, pittori, scultori, scrittori e architetti, da Depero a Carena a Bontempelli; poi i Torresini, Commetti, i Selva, i Canevari, i Mistruzzi, i profughi russi Brailowski e Yussupov, l'architetto Lizzani (Goffredo, fratello del regista Carlo). Insomma tanti. Noi Canevari fummo gli ultimi ad andarcene nel 1952, con i muratori che sfondavano i soffitti a picconate. Il proprietario l'aveva venduto ai Teichner, quelli del caffè. Sfruttandone tutta l'area del giardino, vi costruirono poi un enorme cubo di cemento che ancora è lì, con tutta la sua volgarità. Uno dei primi esempi della foia palazzinara romana. Partivo dunque da viale Giulio Cesare e arrivavo «a pedagna» a via Aurora, vicino a via Veneto, da Ettore Colla. La ragione è presto detta: mio padre in quegli anni aveva ricevuto una commissione per un lavoro di decorazione a Napoli, i cartoni dei mosaici per la cupola dell'Incoronata Madre del Buon Consiglio. I pagamenti seguivano gli umori dei fedeli donatori e perciò arrivavano letteralmente quando Dio voleva. Quando non arrivavano mio padre telefonava al vecchio amico Colla: «Ettore, ce l'hai qualche lira da prestamme?». «Sì». «Allora ti mando Bido». Bido ero io, con il mio soprannome. (...1 A casa di Colla ho conosciuto Alberto Burri. Burri parlava poco; una parola è poca, due sono troppe. Aveva il distacco «aristocratico» di quelli che ne hanno viste, passate e subite di tutti i colori. I campi di concentramento di qualsiasi tipo lasciano il segno. Nel suo viso gli occhi sormontati dalle "opracciglia nere si accendevano in uno sguardo intenso venato di ironia. Gli ero simpatico; in quel periodo, oltre ad andare a prendere le «buste» da Colla, disegnavo molto e dipingevo; non avevo il senso preciso di quello che facevo, però facevo. Penso che Burri e Colla, e poi Cagli, fossero incuriositi di quello che andavo facendo. Incominciai a frequentare Burri, lo andavo a trovare nel suo studio di via Margutta: quasi tutti i giorni verso sera passavo a prenderlo per poi andare a mangiare al «Grilletto», un'osteria di via Sistina dove ad attenderci c'era il solito gruppetto: mio padre, Colla, Mannucci, a volte Garletto Canestrari e Nuvolo. Li ascoltavo con avidità. A modo loro mi educavano, non certo didatticamente; le lezioni erano estemporanee, ogni tanto mi prendevano per i fondelli, specie Colla, ma erano manifestazioni affettive e paterne. Si incazzavano perché frequentavo Cagli, forse temendo una mia defezione. Una volta Colla, con uno dei suoi sorrisetti ironici, mi consegnò una busta con dentro dei soldi, frutto di una colletta alla quale aveva partecipato anche Burri, per «mandarmi al casino». Lo studio di Burri a via Margutta era spoglio, quasi monacale, illuminato da una sola finestra. Lui lavorava alla luce di una lampada elettrica; mi mettevo in silenzio da una parte, mi diceva di aspettare ed io aspettavo. A volte passava anche qualche ora in silenzio; lavorava spesso accovacciato sul pavimento con la tela a terra; faceva scolare il colore inclinando la tela, era concentrato in un tempo straordinario e preciso. A volte metteva la tela sul cavalletto e la guardava; poi la girava e rigirava da tutti i lati, cercava l'equilibrio della composizione, quel bilanciamento perfetto delle superfici. Così a modo suo andava ritrovando i sentieri di Piero della Francesca. Gli ho visto dipingere non con il pennello dei quadri di una purezza estrema, dove la materia lievitava con echi inauditi: era il periodo delle «muffe», dei «gobbi», dei «catrami», dei «sacchi» e di qualche «bianco». Aveva sempre un solo quadro rivolto dalla parte della superficie dipinta, gli altri li teneva appoggiati contro la parete e non si vedevano; una volta che ero rimasto fortemente impressionato da un quadro, gli chiesi di farmelo rivedere e gli citai il titolo: «La mia Crocefissione». Allora Burri mi guardò e sorridendo mi disse: «Stronzo, non si chiama La mia Crocefissione ma La tua Crocefissione» e preso il quadro che era appoggiato come al solito a rovescio contro il muro lo pose sul cavalletto. Burri dormiva in quel suo ia er to o, riù o o ate che incominciavano quasi sempre così: «Lo sai che Guttuso...». Una volta Burri mi disse di accompagnarlo per dargli una mano in un suo lavoro da fare. Si trattava di un soffitto nell'appartamento di una palazzina elegante, all'Aventino, dalla parte del Palazzo della Fao. Andammo, l'appartamento era completamente vuoto con nemmeno una sedia per sedere. Trovammo una tela che occupava tutta la parete di fondo del soggiorno e che susseguentemente avrebbe dovuto essere agganciata contro il soffitto. Ci mettemmo seduti per terra. Burri aveva già portato precedentemente barattoh di colori tutti bianchi. Senza rompere il silenzio che durava già da un po' di tempo, si alzò e con un pezzo di carbone tracciò al centro della tela alcuni segni, solo pochi segni al centro della grande tela bianca. Ma era come se quei segni affiorassero alla superficie da imo spazio «altro», segnah arcani. Poi incominciò a stringere e ad imprigionare lo spazio dai perimetri laterali con campiture di bianco. Avanzava con la pennellessa o con la spatola a seconda di come voleva far vivere la materia di quelle superfici, alternando bianchi ora più opachi ora meno. Lo guardavo così concentrato e in silenzio: capii che quel lavoro lo poteva fare solo lui e che non avrei potuto nemmeno mescolargli un colore, ero lì solo per fargli compagnia. Partecipavo a quel rito magico, teso sul filo dell'alternarsi dei suoi percorsi che come in una danza delicata e quasi impalpabile andava tessendo sulla tela. Il primo articoletto su Burri fu scritto da mio padre (Enrico Crispolti se ne è ricordato - grazie, Enrico! altri no): Burri, in quell'occasione, anche se non richiesto, gli regalò un bellissimo «bianco», lì quadro lo abbiamo venduto dopo la morte di mio padre, tramite Colla, a Cardazzo, con dispiace' re; come per quelli di Capogrossi, di Cagli, di Montanarini, di Turcato, di Mirko e di Afro: peccato! ma avevamo fame. Burri non lo ho poi più visto per tanti anni, la vita è carogna: si dice sempre: «domani lo vado a trovare». Ciao, caro Alberto. L'autore dei «Cretti» nel ricordo dello scultore Angelo Canevari: «Parlava poco, aveva il distacco aristocratico di quelli che ne hanno passate di tutti i colori. Lavorava spesso accovacciato sul pavimento con la tela per terra; faceva scolare il colore inclinando la tela Era concentrato in un tempo straordinario e preciso. Partecipavo a un rito magico» ATUPERTU COI GENI Angelo Canevari, scultore e incisore (fra le sue opere le porte della cattedrale di Belluno e i monumenti per il traforo del Fréjus), scenografo e Illustratore, pubblica il volumetto Legna petardere con le Edizioni dell'Altana (92 pagine, 7,80 euro). Racconta i suoi incontri con alcuni protagonisti del Novecento: Burri, Cagli, Colla, Mirko, Licini, Capogrossi, Bacon, Soutine. Figlio d'arte, Canevari ha conosciuto e frequentato, ragazzo nella Roma povera del dopoguerra, alcuni fra coloro che segneranno l'arte del secondo Novecento. Soprattutto è entrato in confidenza con loro, si è lasciato educare non in senso accademico, ma in maniera più ampia e vitale, come si legge nell'incontro con Burri che apre il suo prezioso libriccino. Alberto Burri nel suo studio a Città di Castello e, sotto, lo scultore Angelo Canevari

Luoghi citati: Belluno, Brescia, Cagli, Città Di Castello, Napoli, Roma