Timmel: arte, follia e molto vino di Masolino D'amico
Timmel: arte, follia e molto vino IN SCENAATRIESTE.«MOSTRA» DI MAGRIS SULLA VITA DELL'ALLIEVO DI KLIMT Timmel: arte, follia e molto vino Herlitzka dà vita a un copione un po' statico Masolino d'Amico TRIESTE Vito Timmel, protagonista della «Mostra» di Claudio Magris, era un pittore viennese «quasi» allievo di Klimt, che visse a Trieste dove mori ospite di un ospedale psichiatrico, nel 1949. Poiché di lui nulla sapevo, ho tentato di vedere i suoi quadri, un certo numero dei quali si trova al museo Revoltella, ma questo il martedì, ossia proprio il giorno fissato per la prima stampa, è inesorabilmente chiuso. Per fortuna però almeno una opera importante di Timmel è esposta li vicino, alla mostra su Svevo, insieme con lavori di altri artisti della cerchia dell'autore della «Coscienza di Zeno». Da quell'unico dipinto e da qualche riproduzione mi sono cosi fatto l'idea, sicuramente superficiale e inadeguata, di una specie di cartellonista un po' viscido e morbosetto, che parte magari da Klimt, ma per andare verso Erte. In ogni caso, la qualità della produzione di Timmel non è messa in discussione nella pièce di Magris, che è soprattutto la rievocazione poetica di un personaggio, diciamo così, particolare. Si comincia col funerale di Timmel e con gli amici che ricordano l'estinto, prima intorno alla fossa, quindi all'osteria: le due zone sono sobriamente evocate nella scenografia di Pier Paolo Bisleri ai lati di una piattaforma dominata dal lettuccio di ferro della cella di Timmel al manicomio. Timmel come fantasma presenzia alle proprie esequie e ascolta i discorsi dei dolenti, senza trovarvi niente da ridire. Si parla vagamente delle sue stravaganze, particolarmente della sua insaziabile sete di vino - anche dodici litri in fila, una volta; il principale celebrante, lo scultore Sofianopulo, si sciacqua la bocca con parecchie citazioni letterarie. Poi prende la parola Timmel dal suo lettuccio, e parla di sé, senza entrare troppo in particolari, ma facendo capire che al centro della sua crisi fu la prematura morte della moglie, dopo appena quattro anni di unione (una seconda consorte non servì a rimetterlo in carreggiata). Il solito pomposo Sofianopulo paragonerà la vicenda di Timmel al mito di Admeto, che fu salvato dal sacrificio della sposa Alcesti scesa agli inferi al posto suo. Andando avanti ci sono interventi corali (ossia, anche cantati) di matti scalzi e in camicia di forza, ricoverati con Timmel. Da ultimo prende la parola un imbonitore incaricato di presentare la mostra di Timmel donde il titolo. Mentre due grandi riproduzioni di quadri vengono spostate qua e là per la scena, questi pronuncia una sarcastica arringa sul fatto che i regimi combattono i ribelli confinandoli nei manicomi, ed equiparando arte e foiba. L'affermazione arriva un po' come una sorpresa, almeno per chi della vita di Timmel sa soltanto quanto è stato detto finora nella commedia, ossia che costui, oltre a dipingere, beveva, viveva precariamente, ed era rimasto segnato dalla morte della moglie. Considerarlo per questo una minaccia al fascismo sembra esagerato; ma forse si allude a fatti non riportati nel testo. L'allestimento diretto da Antonio Calenda nella Sala Bartoli, al quarto piano del rinnovato Politeama Rossetti, fa molto per animare un copione più adatto alla lettura che alla presentazione scenica. Lo scuro, elegante ambiente del succitato Bisleri, puntualmente illuminato da Nino Napoletano, si rovviva verso la conclusione con un colpo di estro, quando dietro la vetrata di fondo compare la facciata autentica del palazzo dall'altra parte della strada, da una finestra del quale un Timmel piccolo per la distanza declama la sua ultima tirata. Altri momenti sono sottolineati da gradevoli musiche di Germano Mazzocchetti eseguite dal vivo. E il concertato degli attori è impeccabile, con un mellifluo Mario Maranzana che dà leggerezza agli interventi di Sofianopulo e un sogghignante Marco Casazza come il cinico Direttore della mostra. Splendido, infine, il Timmel di Roberto Herbtzka, un «maudit» deliziosamente eloquente, o meglio, delirante, anche in triestino, e pieno di ironia su se stesso. Un'ora e venti circa, grandi applausi, rephche qui fino al 13. Una scena dello spettacolo «Mostra» in scena a Trieste con la regia di Claudio Magris - -,.,,;I.:,.
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