RAO Libertà è rubare una lampada

RAO Libertà è rubare una lampada IMMAGINI SIMBOLO DEL GIORNO IN CUI IL REGIME CADDE RAO Libertà è rubare una lampada Jacopo lacoboni LA videoguerra postmoderna, tv satellite internet, finisce quando le immagini dicono che è finita: un iracheno si aggrappa e mette il cappio al collo di Saddam, un marine lo segue incappucciandogli la testa con la bandiera yankee (poi prontamente tolta perché «questa non è un'invasione, è una liberazione»), un carro armato traina nella polvere l'icona di un potere che non c'è più. Intorno, il déjà vu della Storia: uomini prima tiranneggiati e ora maramaldi, civili che saccheggiano «quel che resta del regime» e di un giorno che entrerà nella storia, gente sanguinante caricala in fretta verso improba¬ bili ospedali senza più posti liberi... La realtà (del nuovo Iraq) è quello che si vede: curdi a Kirkuk che possono finalmente issare la bandiera gialla del KDP, partito democratico di un popolo senza nazione. Iracheni in motocicletta (esattamente: chopper pseudo yankee) e similjeans che sventolano bandiera americana: la vittoria del soft power prima che dell'esercito. Gente che sciama ovunque e ruba tutto il cibo che può. Una bimba sguardo perso senza papà (faceva il cronista ad Al Jazeera). E poi il solito ministero in fiamme, che qui ovviamente è quello del petrolio, e uomini che non conoscendola hanno scambiato la libertà con la prima cosa da arraffare: una lampada. I curdi a Kirkuk possono finalmente issare la bandiera gialla del KDP, mentre iracheni in jeans e chopper ostentano (quasi) ogni simbolo Usa Molti si trasformano da tiranneggiati in maramaldi, la gente sciama ovunque e porta via tutto il cibo che può II dolore? È negli occhi di una bimba Il ministero in fiamme, qui, è ovviamente quello dei petrolio; poco lontano una piccola folla sottrae oggetti soprattutto dalle case degli ufficiali baathisti Il grande saccheggio «Baghdad. Iracheni rubano dalla casa di un Saathista». E non è che l'uomo avesse beni imperdibili, a giudicare dall'immagine. Il saccheggio (oltre che «liberazione dalla tirannia») può anche essere descritto dall'antico motto «maramaldo, uccidi un uomo morto». Ieri tanti iracheni non hanno resistito alla tentazione: alcuni per procurarsi cibo e beni di prima necessità. Altri perché hanno scambiato la libertà con la prima cosa che gli capitasse a tiro: compresa una lampada, o un vecchio frigo caricato su un fuoristrada Daiatsu. Le case dei baathisti non contenevano molto altro, e certo non i «legittimi» proprietari sfuggiti a sicura gogna. Bandiera curda «Kirkuk, peshmerga curdi issano su un relitto la bandiera gialla del Kdp». Poi non è che siano tutti santi, gli uomini e i combattenti di un popolo senza nazione, che da noi s'è fatto conoscere soprattutto per un interminabile tormentone politico-giudiziario chiamato Abdullah Ocalan (il leader del Pkk che mise in ambasce a lungo il governo di centrosinistra), l'affabilità e la cultura cosmopolita dei suoi espatriati e la delizia dei suoi ristoranti etnici (imperdibili piatti a maioliche di quello torinese). Ma adesso che le luci sono accese sui curdi iracheni - già gasati in cinquemila ad Halabia da Ali il chimico, braccio destro di Saddam, e in questa guerra alleati, più o meno, degli americani - e il «popolo senza nazione» può finalmente alzare la bandiera gialla del loro «Partito democratico», non lo tradisca il vento. l/ìttimo O f\l "Amrnan- Fatima Ayoub, figlia VIllllllC C IV del giornalista di Al Jazeera ucciso, davanti a una foto di suo padre». E più difficile, nella guerra postmoderna, non perdere di vista H dolore: questa immagine riassume sofferenza (reale) delle vittime e implicazioni (virtuali) della cyberwar informativa. La tv Al Jazeera - «l'altra Cnn», 10 corrispondenti tra i quali lo sfortunato Tareq, papà di Fatima - è quella che ha avuto più familiarità col dolore: l'ha fatto vedere (tanto, e forse strumentalmente), l'ha raccontato sposando una tesi (come il «buon musulmano Tareq»). Il futuro, equanime e compassionevole, è Fatima. Il «soft power» Usa «Sulaimaniyah. Curdi iracheni celebrano l'arrivo degli Us Marines a Baghdad». La stringatezza della didascalia dell'agenzia Reuters tralascia particolari che qui possono essere sommariamente segnalati perché, forse, meritano. Il primo: i due curdi in primo piano indossano camicia a scacchi simil Montana (nel senso dello stato Usa), pantaloni occidentali che si potrebbe definire jeans, moto che sarebbe enfatico definire Hurley Davidson, ma è quel che resta di un chopper rivisto alla irachena. Libertà è sventolare una bandiera Usa sui segni del vero potere americano (anche se per ora è solo un'imitazione). Dal soft power alla democrazia? Liberi (di trafugare) «Baghdad. Civili iracheni spingono carrelli carichi di beni dopo aver saccheggiato un magazzino governativo». Ecco, il saccheggio ieri è avvenuto ovunque nella capitale (in questo caso la foto è stata scattata sulla strada principale alla periferia sud est: si rubano uova e altri generi alimentari). Scrivono dotti antropologi che si tratta del «primo segnale della ribellione alla tirannia e della fine di una dittatura, consueto in tanti passaggi di regime». Lo testimoniano, tra i molti esempi: il comportamento degli italiani dopo la caduta di Salò (oro di Dongo a parte); il furto, compiuto da moltitudini popolari, di tutte le scarpe della signora Imelda, moglie del dittatore filippino Marcos appena deposto; lo spoyl system, «saccheggio» democratico dei posti di potere dopo ogni elezioni Usa che si rispetti. La sfida americana, ora, è esportare questo saccheggio di nome democrazia. Le donne «Baghdad. Donne del Baath lasciano la città con i bambini». Nel '68, rivolta a Praga e primi happening freakkettoni nelle università californiane, i loro papà depongono un regime (di Abd Al-Rahman Aref) per instaurarne un altro. Il suo fulcro si chiama Baath party, il partito di Saddam: queste figlie, divenute madri, ne indosseranno vestiti e simboli. Scarpe e velo nero, conservati nell'«inva5Ìone», sono un'icona: gli uomini fuggono, iracheni maramaldeggiano sulle statue del dittatore, le donne, silenziose, sfilano via con dignità nella sconfitta. Potmlìn «Baghdad. Minircu WIIW stero de| petr0|io in fiamme». Non è che questo sia solo un simbolo: è l'immagine dell'assalto al potere reale dell'ex regime di Saddam, quell'«oro» che non è bastato a evitare un debito commerciale enorme (116 miliardi di dollari), né a pagare la riparazione dei danni di guerra al Kuweit (200 miliardi di dollari). Qui, dietro queste vetrate che vanno in fumo, venivano discusse le intese con le multinazionali delle estrazioni, qui Francia e Russia hanno siglato (praticamente, insieme) l'accordo che consegnava al pacifista Chirac e all'imperscrutabile Putin l'ottanta per cento dei diritti di estrazione iracheni. Quei diritti adesso bruciano, assieme al sesto piano di un palazzone stile periferia romana e a una foto di Saddam sorridente come (forse) non lo vedremo più.

Persone citate: Abdullah Ocalan, Chirac, Del Giorno, Fatima Ayoub, Hurley Davidson, Putin, Rahman Aref, Tareq