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. i ^.■., tt-nil-tfaM l OTTA APERTA Così è caduta a capitale del Raiss DOVEVA ESSERE UN BALUARDO, SI E' CONSEGNATA QUASI SENZA COMBATTERE Città aperta Così è caduta la capitale del Raìss reportage Giuseppe Zaccaria inviato a BAGHDAD ~ ERCOLEDI' 9 aprile, giorno della presa dì Baghdad, quello in cui si cominciano anche a tirar giù i monumenti. Due ore e più, sotto 1' occhio delle telecamere delle emittenti che sono rimaste nella capitale: tanto è durata l'agonia della statua di Saddam Hussein che da un anno campeggiava al centro della piazza del Paradiso e che ieri, poco dopo l'arrivo delle truppe alleate, è stata presa d'assalto da un centinaio di persone. Non era certo un obiettivo vitale per le armate americane, ma è diventata il simbolo di un regime da ripudiare pubblicamente. Il simulacro di bronzo, alto una dozzina di metri e poggiato su un cilindro di cemento, è stato assalito in tutti i modi. Dapprima qualcuno ha tentato l'arrampicata sul cilindro, facendo «scaletta» ai compagni. Fallito questo tentativo, da chissà dove - il complesso monumentale si trova al centro di una immensa piazza, contornata da strade e giardini - è stata portata una scala. Non sufficientemente lunga, però, per raggiungere la base del monumento. Alla fine prima in due, poi in tre, ce l'hanno fatta. Hanno portato una corda e un canapo molto grosso che, dopo qualche tentativo, sono riusciti a far passare intorno al collo della statua. Tutto questo mentre, a pochi metri di distanza, un gruppo di fanti americani guardava la scena, forse divertiti, ma senza mai staccare il dito dal grilletto dei fucili. Poi, mentre un ragazzo passava intorno al collo del Raiss la corda, un forzuto in,.cannottiera ha cominciato'a colpire con un grosso martello il basamento. Ogni tantouqualcuncgli davail cambio,- ma è riuscito a tenere la scena a lungo. Infine'gli assalitori hanno pensato che forse gli americani, dopo avere buttato giù il regime, potevano aiutare a fare lo stesso con la statua. Un mezzo corazzato americano si è avvicinato lentamente, ma il primo tentativo è fallito quando la corda, dopo essersi tesa per effetto della retromarcia del mezzo, s'è spezzata. Allora gli americani hanno cominciato a fare sul serio e dal carro s'è alzato un lungo braccio meccanico al quale è stata collegata una catena, poi fatta passare intorno alla statua. A questo punto il volto dell'odiato tiranno è stato coperto da una bandiera a stelle e strisce, ma la folla non ha gradito e al vessillo ne è stato prontamente affiancato uno iracheno. Quando il carro ha cominciato lentamente ad allontanarsi dalla statua e a tendere la catena, dalla folla s'è levato un boato da stadio. Il Saddam bronzeo ha dapprima opposto resistenza poi, lentamente, ha cominciato a inclinarsi verso terra, dove è caduto, immediatamente bersagliato con calci e pugni. Un uomo, uscito dalla folla, si è persino avventato contro la statua con un' ascia, spaccando brandelli di bronzo che tutti si sono contesi, come se fossero trofei. Il rito di distruzione è proseguito anche dopo che le telecamere avevano abbandonato la piazza. La conquista militare di una città di norma segue a una resistenza ed è preceduta da una resa: per Baghdad non è avvenuto. Ieri la capitale dell'Iraq si è praticamente squagliata, s'è consegnata ai carri armati dell'invasore senza combattere e senza reagire, senza protestare e senza scendere per ie strade, con umano sollievo ma senza festa. Alle quattro e cinque del pomeriggio BaadAbbas, direttore dell'hotel Palestine, ha spedito di corsa il cassiere a togliere dal suo ufficio tutte le foto di Saddam Hussein e nello stesso momento allo «Sheraton», dall'altra parte della strada, due giovanotti si arrampicavano su una scala per tirare giù la gigantografia del Raiss che dominava l'atrio. Era il segno che tutto stava cambiando: quattro tank americani sono arrivati quindici minuti dopo a certificare dinanzi alle telecamere del mondo la presa di possesso della capitale. Nell'albergo colpito l'altra mattina i marines sono entrati un po' in sordina, di fronte a un gruppetto di pacifisti che sventolavano foto di bambini uccisi. In quello di fronte hanno fatto irruzione in termini più militari, tra cronisti che alzavano le mani a scanso di equivoci, donne che piangevano, bimbi che urlavano aggrappati alle madri. Il tenente colonnello Brian MacCoy, di Norman, Oklahoma, Terzo battaglione della Settima divisione, ha comunicato subito dopo che tranne alcune sacche di resistenza la capitale irachena è sotto controllo americano, sono stati fatti molti prigionieri e che non si hanno notizie sulla sorte di Saddam Hussein. Alcuni lo vogliono in fuga con familiari e fedelissimi presso la ridotta di Tikrit, e secondo la televisione Al Jazeera, che cita fonti russe, la resa di Baghdad sarebbe stata invece barattata con l'esilio del leader. Parlare di resa, lo ripetiamo, è però inesatto: questa metropoli si è concessa a un potere militare come può farlo una donna estenuata che aspiri solo a essere lasciata in pace. Nel suo grande ventre la metropoli ha nascosto soldati, miliziani, uomini di partito che hanno smesso le divise, e adesso subisce e sopporta l'esercito invasore consolata solo dal fatto che il regime di Saddam Hussein è evaporato con tutte le sue divisioni della Guardia. Bisogna fare attenzione alle tv, che stanno trasmettendo in tutto il mondo immagini di gente che festeggia, o di sottoproletari con le due dita alzate in segno di vittoria, ed il «tanghiùbbusc» sulle labbra. Questa è la marmaglia di Saddam City, la feccia del milione e mezzo di sottoproletari che nel quartieresatellite si sono visti d'un colpo liberati da un triplice giogo: quello del loro stesso ghetto, del regime che li teneva ammassati in strade piene d'immondizia e quello della minoranza sunnita che ha sempre governato l'Iraq. La metropoli, invece, accoglie gli anglo-americani come si fa con un esercito coloniale. Baghdad ha cominciato a essere città aperta fin dall'alba, quando ha scoperto di essere stata svegliata dal silenzio. Dov'erano i boati degli ultimi venti giorni, i tremori delle ultime venti notti, le raffiche di missili, i patetici botti della contraerea? Tutto finito, in una sospensione quasi irreale. Dappertutto erano spuntate falangi di mendicanti, donne e bambini che fino a ieri non si erano visti e adesso ti tagliavano la strada, ti arpionavano un braccio chiedendo il «bakshish» con fare insistente e aggressivo. Solo da NordEst si sentivano giungere echi di una scaramuccia, gli americani erano entrati anche da quella parte e Saddam City, la Soweto del Medio Oriente, era stata occupata. Siamo partiti in quella direzione con un autista palestinese, eccitato eppure dubbioso, felice perché forse stava finendo tutto e nello stesso tempo melanconico perché dal suo punto di vista questa è anche una vittoria di Israele. Lungo le strade cannoni, carri armati e intere file di fucili abbandonati, c'era gente che saliva sulle spoglie di un potere militare impietrito, altri che caricavano mazzi di armi leggere su un furgoncino non per armarsi ma per pjrepararsi a venderle al prossimo offerente. Saddam City sembrava in preda a un sabba scatenato e straccione, a un delirio di appropriazione e rivincita che si abbatteva su tutto, caserme, uffici, ministe- ri, sedi bancarie già svuotate da tempo. A ogni traversa si vedevano uomini e ragazzi entrare nei palazzi e uscirne dopo brevi lotte portando a spalle chi un frigorifero, chi un condizionatore, chi una sedia, una lampada o un lercio e inutile materasso. Altri prendevano a sassate i lucchetti e i cancelli per tentare di infrangerli. Al centro del quartiere, dove i mucchi di spazzatura si diradano appena per la presenza degli uffici pubblici, c'era un ingorgo di auto pazzesco, dai bagagliai spuntavano frammenti del bottino, un camioncino giallo portava sul cassone tre donne sciite che scortavano una bara e piangevano disperate per il lutto, per il blocco del traffico e per quanto stava accadendo intorno. «No Saddam no Saddam», gridavano i saccheggiatori, o ripetevano in coro «Halas, halas», cioè è finita. Naturalmente per loro questa era la cosa più importante. Qualcuno si sentiva in dovere di alzare due dita dai carichi che gli gravavano sulla schiena per gridare dinanzi alle telecamere «Hello America» ovvero «Bush», ma sembrava che volessero ingraziarsi i marines americani che un po' confusi osservavano la scena da lontano. Altre bande entravano nei parcheggi dei ministeri e portavano via vecchie berline Toyota o preziosi furgoni americani, se non c'era la chiave di avviamento le auto venivano trainate fuori. Altri ancora improvvisavano danze tribali intorno al bottino. Nonostante le immagini che possono essere entrate nelle case americane ed europee, pensare una Baghdad che festeggia l'invasore sarebbe pura mistificazione. Quelli che si sono prestati al gioco televisivo non erano poi tanti, e non fra i migliori, la stragrande maggioranza nel quartiere sciita ha continuato a occuparsi del saccheggio o dei fatti propri. C'era gente che entrava nella sede del Comitato Olimpico, quello diretto da Uday Hussein e rubava i cavalli. Il figlio scapestrato e sanguinario del Raiss aveva questo hobby, oltre a quello delle donne. Mentre il palazzo bruciava una piccola folla di persone trascinava fuori tre splendidi purosangue arabi con sguardi terrorizzati. Poco più in là il fumo usciva anche dalle finestre del ministero della Produzione petrolifera, bruciava una sede della polizia segreta, s'infrangevano i pochi vetri rimasti intatti al ministero dell'Energia. Le bande del ghetto hanno devastato e saccheggiato persino l'ufficio di rappresentanza delle Nazioni Unite. I cameramen venivano buoni quando si trattava di fare il segno di vittoria, ma se scendevano dalle auto si trasformavano immediatamente in prede: ne abbiamo visto uno affrontato alle spalle da una banda, costretto a inginocchiarsi e privato non solo delle telecamere ma anche della giacca, del denaro, dei vestiti. E' l i i o i e e o a e E' riuscito a risalire sul furgone praticamente nudo. Al rientro in città le scene che si potevano cogliere erano invece di una normalità misera e rassegnata. In Bah al Mohazzam una torma di ragazzini è apparsa da dietro un muro spingendo un carretto a due ruote, di quelli che si usano nei mercati. Sopra c'era il cadavere seminudo di un uomo cui era stato coperto soltanto il capo. Dinanzi a qualche distributore di benzina ancora giovani armati di kalashnikov ma dall'aria alquanto spaurita. Piuttosto, al ritomo in centro era facile constatare come l'inizio del saccheggio cominciasse a creare preoccupazioni anche a distanza. Le tv piazzate dinanzi all'hotel Palestine smontavano freneticamente parabole e attrezzature per evitare incursioni delle bande. I controllori del ministero dell'Informazione erano svaniti, con due sole eccezioni: prima s'è visto per pochi.minuti l'esile Jamal, catturato anni fa dal regime. Salutava tutti, chiamava tutto il mondo «habibi» e portava via una borsa dal contenuto evidentemente prezioso. Poco più tardi uno dei funzionari più rigidi si è fatto vedere intorno alle auto sequestrate ai giornalisti italiani. Con rapidi passaggi di mano un cacciavite è transitato da un collega all'altro, finché si è infilato nel pneumatico di una jeep che il funzionario cercava di mettere in moto. Lui ha farfugliato: «Stavo cercando dei vestiti...» e poi si è opportunamente eclissato. Per i sette colleghi prigionieri il momento della liberazione era scattato poco prima, quando ancora non avevano riavuto i passaporti e la situazione appariva alquanto fluida. Per settimane era stato vietato loro di mettere il naso fuori dall'albergo, l'Enrico Toti della pattuglia è stato Leonardo Malsano, de «Il Sole 24 Ore», che a un certo punto non ne ha potuto più e ha detto: «Basta, usciamo». Non c'era nessuno che potesse controllare, dopo gli esasperanti giorni dell'attesa i sette sono schizzati via con l'impellente bisogno di visitare ogni angolo di Baghdad. Nel resto della città intanto cominciavano a moltiplicarsi i posti di blocco americani, prima sulla Palestine Street, poi sulla Saddoum, chiudendo in pratica tutta l'area orientale. Resistenza, pressoché nessuna: solo nel quartiere dei ministeri i soldati americani presso l'albergo Rasheed hanno continuato a sparare su chiunque si avvicinasse. Da quella parte è tornata l'eco di forti bombardamenti, segno di una sacca di Fedayn che ancora si ostinano a combattere. Tutto il resto della città invece non vuole più saperne della guerra. Nelle stanze del nostro albergo sono rifugiate famiglie intere, ci sono soldati e perfino giovani ufficiali dell'Armata fuggiti via in borghese con mogli e madri, qualche funzionario cerca di tenersi lontano da casa in attesa che la tempesta si plachi, anche il personale si è fatto raggiungere da mogli e bambini. L'atrio dello Sheraton si è già trasformato in grande dormitorio, come accade per la moschea. Per qualche giorno sarà ancora così in attesa che i boati cessino del tutto e il controllo americano sulla città diventi più effettivo. Per il momento si dispiega solo sulle grandi arterie, i carri armati non sono penetrati in entrate residenziali o nelle viuzze. I soldati americani sono nervosissimi, sparano su qualsiasi finestra vedano aprirsi, non si fidano neanche di quelli che portano il giubbotto antiproiettile con la grande scritta «Press». Intanto l'opera delle forze alleate prosegue. Tra qualche giorno si potrebbe registrare il pieno controllo della capitale. Ma nessuno si faccia illusioni. Malgrado le manifestazioni di facciata e il genuino sollievo per il suo ingresso in città, che sembra preannunciare la fine delle ostilità, l'esercito alleato qui è visto e sarà visto a lungo come invasore. Una data storica; e la statua abbattuta in Piazza del Paradiso ne è stata il simbolo Baghdad ha cominciato ad annusare la pace fin dall'alba, quando è stata svegliata dal silenzio Dov'erano i boati degli ultimi venti giorni, i tremori delle ultime venti notti, le raffiche di missili, i patetici botti della contraerea? Un sabba scatenato di saccheggi nei palazzi abbandonati di un potere svanito Una via di Baghdad, il giorno della liberazione: i marines accanto ai mezzi blindati e alle Humvee. Qui sotto, un giovane iracheno marcia con i soldati americani festeggiando la caduta del regime