Il fuoco americano fa strage all'hotel dei giornalisti

Il fuoco americano fa strage all'hotel dei giornalisti UCCISI UN UCRAINO E UNO SPAGNOLO, MOLTI I FERITI Il fuoco americano fa strage all'hotel dei giornalisti Secondo Madrid da 48 ore gli Usa avevano indicato l'albergo come obiettivo militare. Bombardata anche Al Jazeera: morto un reporter arabo, i colleghi chiamano la Croce Rossa per salvarsi dai proiettili reportage Giuseppe Zaccaria inviato a BAGHDAD ORE 11,03, nell'atrio dell'albergo «Palestine» i vetri tremano più del solito e dopo un attimo frammenti di calcinacci che cadono sul cortile dicono che questa volta non è statosolo lo spostamento d'aria. Un colpo ha raggiunto l'albergo, un carro armato americano ha appena sparato contro il balcone da cui spuntavano le telecamere spianate della Reuters e di Telecinco. Pochi secondi e si scatena lo psicodramma collettivo: decine di giornalisti corrono versogli ascensori, premono i pulsanti bestemmiando come se tutto dipendesse dalla possibilità di salire, gli indicatori dicono che le cabine sono bloccate al 15" piano e fra pochi minuti si capirà perché. Quando il campanello segnala l'apertura automatica delle porte, un gruppo urlante si catapulta fuori trascinando un corpo avvolto in una coperta: è quello di Traras Protskjuk, ucraino, operatore della Reuters. Due, tre minuti ancora e un altro gruppo di colleghi sconvolti trascina fuori su un materasso le membra insanguinate di José Couso, spagnolo. Altri feriti riescono a camminare, una ragazza libanese della Reuters ha una scheggia conficcata nella testa; Ferdinando Pellegrini, inviato dei gr, corre con gli altri coperto di sangue, magro e spettrale com'è sembra anche lui ferito, ma quello è il sangue dei colleghi che ha cercato di soccorrere. Le auto partono in direzione dell'ospedale «Saint Raphael», l'ucraino arriva già morto. Tentano di salvare l'operatore spagnolo amputandogli una gamba ma non serve, muore anche lui. In attesa di notizie nell'albergo si spande un silenzio irreale: è che tutti stiamo sperimentando il crollo dello stupido senso di invulnerabilità che sovente ci accompagna. Le comunità giornalistiche non sfuggono alle leggi degli altri gruppi tribali: tendenza a muoversi da soli ma a raggrupparsi per i riti del pasto e del sonno, racconti mirabolanti che s'incrociano in lingue diverse parlate quasi tutte piuttosto male, proiezioni spacciate per avventure, pericoli veri o immaginari scampati per un pelo, sempre a rinforzare la convinzione inespressa che un giornalista sia un civile speciale, meno esposto degli altri, più protetto degli altri, più furbo o accorto degli altri. E invece basta una cannonata a riportarci tutti con i piedi per terra, anche perché ormai questa guerra sembra proseguire a tema, e l'argomento del ventesimo giorno pare essere la caccia ai giornalisti. Non è così, naturalmente, anche se il bombardamento quasi contemporaneo dell'ufficio di Baghdad di «Al Jazeera» (un giornalista ucciso, un operatore ferito, venticinque persone ancora rinchiuse nei sotterranei che chiedono aiuto alla Croce Rossa perché al centro di una sparatoria folle), le raffiche sulla postazione della tivù di Abu Dhabi e poi la cannonata sul «Palestine» lasciano stupefatti. Coi missili sul suo ufficio, «Al Jazeera» ha perso uno dei più famosi giornalisti televisivi del mondo arabo, Tariq Ajub. Forse ciò che irrita maggiormente tutti noi è la spiegazione fornita dai comandi americani: «Il carro armato voleva difenderci da un fuoco di cecchini che proveniva dal tetto dell'albergo». Qui sono almeno 300 i giornalisti di tutto il mondo pronti a testimoniare che sul tetto non c'era neanche un ragazzino armato di fionda. Una voce da Madrid: secondo il governo spagnolo, 48 ore prima dell'incidente l'hotel «Palestine» era stato dichiarato «obiettivo militare» dagli americani, secondo i quali nell'albergo si nasconderebbero alcuni responsabili iracheni. Comunque, se ci sono reporter che vanno, ce ne sono altri che arrivano: l'agenzia giordana «Petra» ha riferito che ieri ce n'erano 40, di varie nazionalità, in transito da Amman a Baghdad. L'attacco di ieri al «Palestine» si è sviluppato in una maniera che è sembrata casuale. Prima due, poi tre carri armati «Abrams» si erano affacciati fin verso le 9 del mattino sul ponte «Al Jumuryah», ovvero della Repubblica, cercando di passare dalla sponda occidentale ormai sotto prevalente controllo americano a quella in cui continua una specie di resistenza. Per quasi tre ore dai due estremi del ponte si erano visti scambi di artiglierie, mentre dall'alto gli F-10 continuavano a prendere di mira palazzi e formazioni armate irachene. In linea d'aria il ponte dista circa 900 metri dalla facciata del «Palestine». A un certo punto il secondo dei tre carri ha ruotato la torretta in quella direzione e ha sparato. Il proiettile ha colto lo spigolo del palazzo proprio accanto alla suite 1503, e tutti quelli che si trovavano li dentro sono stati massacrati dalle schegge. Possono essere accadute soltanto due cose: o l'equipaggio dell'«Abrams» vedendo da lontano i balconi dell'albergo ha scambiato le telecamere per lanciarazzi Rpg (accade spessis- simo nelle zone di guerra), o ha semplicemente sbagliato bersaglio. Il fatto che oggi fra le vittime ci siano così tanti giornalisti non è essenziale - se non forse per la categoria - ma aiuta a capire ancora meglio quale «chirurgica precisione» abbiano assunto ormai i bombardamenti e le. incursioni americane sulla capitale. Pochi minuti dopo l'incidente il solito Al Shaaf, ministro dell'Informazione, era davanti all'albergo ' per non perdersi l'occasione di un nuovo «show». Diceva di non provare alcun timore ed esortava i giornalisti a non averne. «Gli americani sono accerchiati e non possono uscire dai loro tank, si arrenderanno, li attaccheremo con nuove forze, li distruggeremo, quest'ultima cannonata dimostra quanto siano diventati isterici». Per una volta l'abituale delirio del ministro dell'Informazione conteneva un elemento di verità. L'altro giorno si sono visti marines americani assassinare due soldati iracheni che sulle banchine del Tigri si erano arresi e distesi per terra di fronte a loro, oggi assistiamo a questi attacchi privi di senso e chissà quanti sono gli episodi che nessuno ha visto. L'imprevisto prolungarsi della guerra, la cattura dei primi prigionieri, il moltiplicarsi dei «danni collaterali» e infine gli attacchi dei «kamikaze» hanno reso le truppe di occupazione molto più spaventate e reattive di quanto ci si aspettasse. Nonostante l'alleanza strategica, la differenza di tattiche fra i reparti inglesi e quelli americani si fa sempre più evidente: i primi conducono a Sud dell'Iraq una guerra tradizionale che, in base a secolari esperienze, tiene sempre in gran conto gli umori della popolazione e le possibili reazioni del «dopo», mentre le divisioni di Bush si muovono in modo molto più sbrigative alimentando sempre più il livore che le cùconderà a guerra finita. Adesso ai loro aerei si aggiungono elicotteri ((Apache» che sorvolano bombardando centinaia di obiettivi. I loro cani martellano il frontale del ministero della Programmazione, le loro bombe continuano a cercare Saddam in siti civili, il numero delle vittime non si conta più, gli ospedali traboccano di feriti e onnai non hanno più antibiotici, medicamenti di primo impiego né filo per i punti di sutura. Ieri i blindati americani hanno tentato di varcare il Tigri, prima sul ponte della Repubblica e poco dopo su quello di Sinak. Incontrano una resistenza più forte di quella dell'altro giorno e attraversando i quartieri ad Oriente del fiume non era difficile notare come i reparti di «Feddayn» si stiano attrezzando al contrasto. Da quella parte, Saddoun Street è una lunga arteria che una quinta di palazzi separa e protegge dalle sponde del Tigri. Ieri lungo tutto lo stradone si vedevano correre le jeep armate dei miliziani e soprattutto decine di motociclette con il passeggero che brandiva un lanciarazzi Rpg. Per il momento il Tigri si trasforma in prima linea urbana. ^.'* - ^sSvsm&emSy^:: :.■i:'::::.:/.--r■.xS'ùl:■ G'iorna\isiì di varie nazionalità trasportano un collega ferito dai colpi americani in un corridoio dell'hotel Palestine di Baghdad

Luoghi citati: Abu Dhabi, Amman, Baghdad, Iraq, Madrid, Usa