«Si è visto il tank mirare all'alberao»

«Si è visto il tank mirare all'alberao» RABBIA ALL'HOTEL PALESTINE: HANNO VOLUTO COLPIRE LA STAMPA INTERNAZIONALE «Si è visto il tank mirare all'alberao» «Dicevano che c'era un cecchino, ma nessuno se n'è accorto» testimonianza Litlì Gruber BAGHDAD Tutt'intomo la battaglia era furiosa. A cinquecento metri di distanza da noi, gli elicotteri Apache erano in azione sul centro di Baghdad e sui quartieri orientali della città, avendo come obiettivo un altro dei palazzi presidenziali ed un campo militare. Bombardamenti e combattimenti violentissimi, che avevamo seguito e seguivamo dai balconi del nostro hotel. Per spiegare com'è questo albergo Palestine: un parallelepipedo di 18 piani, mi pare, dove le tv s alcune agenzie hanno preso le grandi "suite che fanno angolo, così da poter avere dai balconi una v^sta*. se non proprio tgtale, almeno di 200 gradi. I carri armati americani lì vedevamo in azione lì, sul Ponte della Libertà, vicino al Ministero dell'Informazione e a quello della Pianificazione. Ad un tratto sentiamo un'esplosione fortissima, ravvicinata. Ci siamo chiesti: dove hanno colpito, stavolta? Siamo accorsi alle finestre, abbiamo guardato fuori ma non abbiamo visto nulla che segnalasse gli effetti di quella tremenda esplosione, cosi vicina. Allora siamo usciti nel corridoio del piano dell'albergo ed abbiamo capito: grida, panico, urla, giornalisti - alcuni insanguinati che correvano dappertutto. Ci hanno detto: hanno colpito la suite della Reuters. Al momento dell'esplosione io mi trovavo negli uffici della France Press, al 15" piano dell'Hotel Palestine, appena sette stanze più in là rispetto a quelle della Reuters. Abbiamo cominciato a correre verso lì perché, scappando, la gente urlava «è lì, è lì che hanno colpito l'albergo». Intorno era il panico, qualcuno gridava che c'erano dei giornalisti feriti e non è stato facile mantenere la calma. Mentre ci dirigevamo verso la suite della Reuters, che è a 20 metri da dove mi trovavo io, abbiamo visto due colleghi uscire da quelle stanze fumanti. Camminavano sulle loro gambe, ma erano insanguinati e feriti al volto ed alle braccia. Una dei due era Samya, l'unica donna di quel gruppo. Sono entrata negli uffici della Reuters con mio marito, che è il capocorrispondente qui della France Press, e con un fotografo, Patrick. Nella suite era tutto per aria, distrutto. Vetri dappertutto, telecamere spaccnte, sangue. L'esplosione era stata così forte che entrambi i balconi erano semidistrutti. Per terra, tra il muro e il letto, sanguinante e ferito, c'era un collega, Paul, l'ingegnere della Reuters addetto alle dirette, alle trasmissioni satellitari. Ha avuto la forza di dire una sola cosa: «Fatemi uscire da qui». Facendosi largo in mezzo al disastro di quella suite, Patrick e mio marito lo hanno prima sistemato sul letto, poi lo hanno avvolto in un lenzuolo e portato verso l'ascensore. Una volta giù lo hanno caricato su un taxi e, accompagnato da un medico, lo hanno trasferito all'ospedale. Le ultime notizie che ho di lui è che era ferito gravemente: è stato operato da due medici francesi e, da quel che so, ancora non si può dire se sia fuori pericolo. L'altro, invece, il collega della Reuters morto - così come il camera- man di Telecinco ucciso dalla cannonata mentre era un piano più sotto - non l'ho visto. Era un operatore di origine ucraina, lo conoscevo perché qui al Palestine abbiamo finito per conoscerci tutti. So che anche lui è stato tirato via da quella suite e portato in tutta fretta al Saddam Hospital. Non ce l'ha fatta: è morto in auto durante la corsa verso l'ospedale. Nell'albergo, intanto, la tensione e la confusione erano al massimo. Non si capiva cosa fosse accaduto, da cosa fossimo stati colpiti e soprattutto da chi. All'inizio, gli americani hanno detto che a sparare erano stati gli iracheni. Poi, una seconda versione è stata che a sparare erano state le forze alleate per colpire un cecchino rifugiato qui, al Palestine. Ho pensato che era difficile che in un albergo zeppo di giornalisti un cecchino potesse passare inosservato. Non è proprio una cosa semplice. Poi sono spuntate delle immagini registrate, le prime notizie di agenzia e insomma siamo stati sempre più sicuri che a sparare erano stati gli americani. Ed è una cosa inspiegabile. Lo sono anche le dichiarazioni che hanno rilasciato: a un aghdad certo punto, cioè, hanno ammesso di esser stati loro a tirare la cannonata, aggiungendo che avevano avvertito i giornalisti di andarsene, di lasciare Baghdad perché la situazione si sarebbe fatta pericolosa. E che comunque questa è una guerra. Allora, diciamo che tutta la stampa internazionale è rimasta basita da queste dichiarazioni perché fino a prova centra-, ria, in tutto il mondo, anche in zone di guerra, i giornalisti cercano di fare il loro mestiere, cercano di documentare quello che vedono e quello che sentono. Questo è il nostro dovere professionale, così come è dovere professionale di altri fare altre cose. Nostro dovere è di raccontare al meglio, nel modo più obiettivo e veritiero possibile, quello che accade: tanto più in una situazione di guerra. Allora,- l'idea che gli americani abbiano voluto deliberatamente colpire l'albergo dei giornalisti, è una cosa che ha fatto inorridire tutti quanti. Noi, tra l'altro, in questi giorni dicevamo che ci fidavamo della tecnologia militare americana. L'altro ieri il Pentagono ha detto che dall'inizio della guerra gli americani hanno lanciato qualcosa come 18 mila ordigni, tra bombe e missili. Abbiamo quindi sempre pensato: il nostro albergo non lo colpiranno. E soprattutto, non lo colpiranno deliberatamente: che siamo qui, lo sanno da settimane. Fosse stato un errore... Un errore può sempre capitare, e infatti ci pensi all'errore. Ma vedere colleghi morire così, è drammatico, difficile da accettare. Naturalmente non li dimentico, non li dimenticheremo, i colleghi della Reuters e di Telecinco. Non li dimentichiamo, così come non dimenticheremo le centinaia di civili uccisi ed i migliaia di feriti. Però, insomma, se viene confermato - come ormai mi pare sia confermato - che i militari americani hanno deliberatamente sparato sull'albergo dove lavorano giornalisti di tutto il mondo da settimane e settimane, ecco, se le cose stanno così, a me sembra si tratti di un episodio non solo drammatico ma di una inaudita gravità. TAREQ AYOUB, GIORDANO, «AL JAZEERA», IERI. In questa guerra ad Al Jazeera hanno tolto, in successione: il permesso di entrare a Wall Street; l'accesso Internet al suo sito in inglese (hackeragglo); uno (dicono) dei suoi migliori cronisti. Si chiamava Tareq Ayoub, giordano di nascita e «buon musulmano» di religione, una moglie di 29 anni e una figlia, Fatima, di 14 mesi. È morto ieri mentre era nell'ufficio, bombardato, della tv del Qatar: uno sbaglio? un tiro degli americani contro la «disinformazia» arabai? «Accendi Al Jazeera e guarda che cosa hanno iti fatto questi bastardi», è stato l'sms inviato dalla tv di Abu Dhabi ai redattori del «Jordan Times». Sul video, sfila un trentacinquenne irriconoscibile e coperto di sangue, icona dell'intreccio tra la guerra che semina morti e la videoguerra postmoderna. Fabio Angelicchio è l'inviato de «La 7» a Baghdad Lilli Gruber era in una stanza a venti metri da quella colpita al quindicesimo piano dell'albergo Monica Maggioni (TG1 ) è al seguito dei soldati americani Giovanna Bùtteri è l'inviata del Tg3

Persone citate: Fabio Angelicchio, Gruber, Lilli Gruber, Monica Maggioni, Palestine, Rabbia, Tareq Ayoub

Luoghi citati: Abu Dhabi, Baghdad, Qatar