«Campi profughi deserti, gli iracheni hanno paura» di Vincenzo Tessandori

«Campi profughi deserti, gli iracheni hanno paura» LAURA BOLDRINI, PORTAVOCE DELL'ALTO COMMISSARIATO ONU «Campi profughi deserti, gli iracheni hanno paura» La popolazione aveva ricevuto in anticipo razioni di cibo per un mese intervista Vincenzo Tessandori UN popolo di fantasmi. Guardi l'orizzonte e vedi solo quelli. Ruwashed, in Giordania, sembra un luogo dell'anima, piccolo paese a 70 chilometri dalla frontiera oltre la quale ci sono Satana, guerra, distruzioni, disperazione, morte. Di qua la speranza, e la speranza è il Campo A, per rifugiati, organizzato dal governo e dall'Unhcr, l'Alto commissariato delle Nazioni Unite: potrebbe ospitare 20 mila persone, finora il vento schiaffeggia tende vuote. Accanto, un secondo accampamento per i fuggiaschi «in transito»: 300 fra egiziani, giordani, somali, di Gibuti. I loro racconti rispondono, talora, all'interrogativo; perché, questo deserto nel deserto? «Sono parecchi i perché», osserva Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr, che ha atteso quel nulla dall'Iraq. Per esempio? «Da un canto c'è un popolo che vive costantemente sotto le bombe, di notte e di giorno e, quindi, teme di mettersi in fuga perché è in ogni modo rischioso. Dall'altro un regime che pone sotto pressione la popolazione affinché non si muova. E, dalle testimonianze raccolte, sulle quali non abbipmo conferme ma che sono ripetute, sembra che un decreto del partito Baath imponga alla gente di rimanere nella propria casa, pena la confisca dei beni, la perdita della nazionalità e il trattamento riservato ai traditori. Per dire, egiziani sposati con donne irachene si sono dovuti dividere: gli uomini verso la Giordania, le mogli rimaste indietro perché, avendo parenti maschi, con la loro partenza rischiavano di farli sbattere in prima linea. Sperano, più avanti, attraverso la Siria, di ricongiungersi». Quanto pretendono gli (scafisti del deserto»? «Molto, per un iracheno medio fiaccato da dodici anni di sanzioni: 3-400 dollari. In Iraq non esiste più una classe media. I tassisti, a loro volta, hanno il divieto di trasportare iracheni alla, frontiera, pare addirittura che debbano firmare alla polizia prima della partenza e al ritomo. La gente, comunque, ha avuto razioni alimentari, distribuite in anticipo, che coprono fino alla fine del mese. Il che significa che non riamo al yunto che la gente non ha più nulla, neanche le radici. Eppoi c'è un altro fatto». Sarebbe? «Negli ultimi anni siamo stati abituati a scenari di guerra civile a matrice etnica, epurazioni, espulsione del gruppo considerato da eliminare, con gente deportata sui treni, com'è accaduto in Macedonia. Qui non siamo di fronte a una guerra civile, non c'è una strategia mirata ad annientare la popolazione irachena: c'è la gente che soffre le conseguenze della guerra, ma non è il bersaglio. Una guerra che non sia di matrice etnica e che dura poche settimane non produce subito rifugiati. Non lo abbiamo mai pensato, ma bisogna essere pronti per ogni evenienza, perché magari una parte della società si ribella a Saddam e un'altra parte rimane leale: e tutto potrebbe degenerare. Oppure, dovesse durare a lungo la guerra, la gente sarebbe costretta a fuggire perché gli aiuti non sarebbero sufficienti». Qual è la situazione? «Il 60 per cento della popolazione dipende totalmente dalle razioni e dal programma "oil for food", cibo in cambio di petrolio. Quindi, dovessero allungarsi i tempi, o si consentirà di ripristinare questo programma o si permetterà alle agenzie umanitarie di entrare in qualche modo, con dei corridoi, oppure un intero Paese sarà costretto a fuggire. Ma questo non è lo scenario odierno. In ogni modo, il campo di Ruwashed potrebbe riempirsi in men che non si dica, e magari saremmo costretti a fame altri, non soltanto in Giordania». Ci sono due campi in Siria, quattro in Iran: deserti. È complicato tirarne su uno? «Qui i lavori sono iniziati a inizio marzo. Enormi. Per trovare la prima goccia- d'acqua gli ingegneri giordani hanno dovu¬ to scavare 400 metri: ora l'acqua è pura, quasi più di quella di Amman. Il campo copre circa 40 ettari, per il momento 200 tende ne occupano 20. Il sistema di illuminazione è ben oltre lo standard, le strade asfaltate. E c'è un'unità medica». s Quali sono i costi? «È stato sottoscritto un accordo con il governo, che comunque ha iniziato i lavori anche prima della firma, per circa 1.200.000 dollari. Ma i lavori vanno oltre questa cifra. Dopo di che ci sono le Organizzazioni non governative, coinvolte nella gestione del campo. Allarghiamo il contesto: per le gare d'appalto, ordinare i beni di prima necessità, trasportarli, stockarli nei Paesi intorno all'Iraq, abbiamo chiesto 60 milioni di dollari. Dieci giomi fa, si è fatto un appello più grosso: se nei prossimi sei mesi dovessero fuggire 600 mila persone, per fornire loro gli aiuti nei Paesi confinanti occorrono 154 milioni di dollari. Ad oggi ne abbiamo ricevuti 32, di cui 21 dagli Usa». Detto tutto ciò, il campo è ancora deserto... «Sì, è un campo a quattro stelle, senza ospiti, in questo momento. Però, il nostro dovere non è quello di produrre rifugiati, è quello di assisterli». Warblog: diario da Baghdad per Stampa Web. Simona Torretta e Marinella Correggia, volontarie dell'ong «Un Ponte per Baghdad», con responsabilità di coordinare gli interventi d'emergenza in Iraq per conto dell'associazione, si trovano a Baghdad, dove sono arrivate due giorni dopo lo scoppio della guerra. Qui cercano di aiutare la popolazione civile coordinando e seguendo diversi progetti. Su www.lastampa.it il loro diario dal fronte. i^^ www.lastampa.it

Persone citate: Laura Boldrini, Marinella Correggia, Simona Torretta