Un fumetto che ricorda la telenovela di Guido Tiberga

Un fumetto che ricorda la telenovela Un fumetto che ricorda la telenovela Era difficile portare sullo schermo una saga lunga 40 anni n.i'iA^ TìUavm^ Guido Tiberga IL primo criminale che appare sullo schermo, uno stupratore mafiosetto e arrogante, si chiama Quesada. Come Joe Quesada, il disegnatore del diavolo rosso salito ai vertici della Marvel Comics. Il medico delle autopsie che mostra il bastone dell'eroe di giorno bianco come un normale strumento per i ciechi, di notte rosso e pieno di armi segrete - si chiama Kirby. Come Jack Kirby, l'artista che nei primi anni Sessanta contribuì a dare un volto a molti dei personaggi che il geniale Stan Lee sfornava a getto continuo. Il pugile che nelle sequenze iniziali affronta Jack Murdock, il padre del protagonista, si chiama John Romita. Lo stesso nome dell'artista che negli anni Ottanta ha ridisegnato il look di Daredevil, trasformandolo nel cupo e duro «uomo senza T-*aiiT*Q\v i-Via ci ijorla naì filiY-i paura» che si vede nel film Citazioni per il divertimento dei patiti. Come il carneo regalato all'ottantunenne Stan Lee, che appare per un attimo sullo schermo nei panni di un vecchio distratto che il cieco Ben Affleck «salva» dai pericoli del traffico di Los Angeles. Ma anche un modo per tenere ancorato il film alla «tradizione» del fumetto che, inevitabilmente, scricchiola in più di vm particolare. «Daredevil» - come l'Uomo Ragno che Sam Baimi ha portato al cinema l'anno scorso - è un personaggio che vive in quella che la sintassi dei comics definisce «continuity». La struttura narrativa dei fumetti Marvel ricorda più quella delle telenovelas che quella dei telefilm seriali: non una serie di episodi da leggere indipendentemente l'uno dall'altro, ma una lunga trama che si dipana negli anni, con morti, fidanza- monti rrilrìì rli cnanà mirari norQn- menti, colpi di scena, nuovi personaggi, buoni che diventano cattivi e cattivi che diventano buoni. Ridurre una saga quarantennale alla durata di un film è impossibile, di qui le scelte che spesso fanno storcere il naso ai lettori «puristi». Un'avvertenza dunque per chi ha superato i quaranta e ricorda l'impacciato Matt, coraggiosissimo nei panni di Devil ma incapace di confidare il suo amore alla bella segretaria Karen. Nel film di Mark Steven Johnson non c'è traccia di quel personaggio: la storia parte dove Stan Lee e l'anziano disegnatore Bill Everett l'avevano fatta cominciare nel 1964, ma subito decolla verso la svolta dark che quindici anni più tardi avrebbe rilanciato le vendite un po' sbiadite dell'eroe cieco. Il protagonista di Johnson è l'uomo spietato e vendicativo reinventato da Frank Miller, lo scrittore che più tardi lavorò a fondo anche con il personaggio di Batman (non a caso, le atmosfere di questo «Daredevil» film ricordano spesso quelle del film di Tim Burton). I nemici sono quelli creati o reinterpretati da Miller: da Bullseye, l'assassino piscopatico dalla mira eccezionale, a Kingpin, il boss dei boss interpretato da Michael Clarke Duncan (scelta curiosa e politicamente scorretta: un attore di colore per un villain che nel fumetto era bianco). Ma anche i cultori di Miller si preparino alle sorprese: il personaggio di Elektra, la «femme fatale» formatasi tra i ninjia, perde quasi completameme la sua anima nera. Nel fumetto compariva come assassina a pagamento al soldo di Kingpin, nemica di Devil ma legata a Matt da un vecchio sentimento giovanile. Qui amore, violenza e rivalità diventano contemporanei: Elektra non è mai veramente «cattiva», e il suo personaggio perde gran parte del suo fascino. Probabilmente si rifarà nell'immancabile sequel. E poco importa che alla fine sia caduta sotto i colpi di Bullseye: al cinema e nei fumetti, ormai, nulla è meno certo della morte. Nel passaggio alla pellicola alcuni protagonisti si perdono o si trasformano Il personaggio diElektra, per esempio l'assassina greca formatasi tra i ninjia, lascia quasi completamente la sua anima nera

Luoghi citati: Los Angeles