Odiava le avanguardie perché odiava lo stile

Odiava le avanguardie perché odiava lo stile L'8 APRILE 1973 MORIVA IL PIÙ GRANDE ARTISTA DEL NOVECENTO, UN RICERCATORE INSTANCABILE CHE DICEVA DI NON CREARE NULLA, MA DI «TROVARE» IL CRITICO Odiava le avanguardie perché odiava lo stile Marco Vallerà FU la sua amica Hélène Parmelin ad ascoltarlo proferire questa verissima boutade: «Ah, se avessi mai fatto il pittore!». Non perché, da fallito, non si ritenesse all'altezza della natura, lui che aveva sempre riluttato a dipingere paesaggi (preferiva le persone vive, l'eros, il paesaggio nudo della carne). No. Soltanto perché non gli sembrava mai di avere dipinto. Gli sembrava di dover ancora scoprire che cosa fosse il miracolo di duplicare la realtà, con i colori e i pennelli (se non se li trovava sotto mano, era capace anche di dipingere con i polpastrelli o con im sigaro malizioso). La sua dipendenza bulimica, ossessiva, vampiresca nei confronti del reale era tale che ricominciava ogni volta, «fregandosene» di quello che lasciava dietro di sé come traccia, anche se mihardaria. L'unico Re Mida, che con un quadratino di Natura Morta poteva comprarsi una villa. Non gli importavano i capolavori, i quadri-simbolo, i «prodotti» di quella sua voracità inesausta, gli bastava essere nella, essere la pittura. «Io sono quello che dipingo». Per questo gli sembrava di non aver mai dipinto, anche se era capace di trangugiare ogni giorno due tf tre tele, degne di museo, un paio di acqueforti e uno schizzetto allegro di ceramica. Doveva ricominciare. Tutti ricordano il celebre aforisma, come smargiasso «Io non cerco, trovo». Ma voleva dire semplicemente, che lui non aveva vogha, né la testa, di mettersi a riflettere, a razionalizzare. Cocteau assicurava: «La sua intelligenza si ferma ai polsi». E così, dipingeva a vita e la realtà, il genio della realtà, veniva a trovarlo dentro la tela, come un Per tutta lpensò di dscoprire cfosse dipi evita over he cosa ngere cane festoso. Quando morì, nel '73, la Fondazione Mazzetta ebbe l'idea di chiedere a grandi nomi di pittori un omaggio al maestro. E lì s'intuì che dopo Picasso era iniziato un po' il diluvio. 0 pedissequi imitatori ed epigoni, oppure sordi narcisi, come Dan Flavin e Beuys, che avevano rifatto solo se stessi, come se l'omuncolo di Malaga non fosse mai esistito. Senza capire il grande lascito di Picasso, che 'arte è un geniale pastiche creativo, il regno del d'après («Il furto in arte è più che legittimo», diceva, pasticciando sublimemente Ingres e Velazquez, Goya e Le Nain). Le più belle mostre di questi ultimi anni sono state quelle dedicate al rapporto con la fotografia. Bastava un nulla, a Picasso, un frammento di cartolina, un gesto fermato nel clic fatalu, per trasformarsi in Guemica o Les Demoiselles d'Avigìwn. Ma bisognava essere dei geni, per saperlo fare, e non dei pantografi mascherati, come quelli che dominano oggi. Lui odiava le avanguardie, perché odiava lo stile. «Ci riduce a dei pasticcieri, pronti con le formine per versarvi 0 nostro talento». Reinventava tutto ogni volta, anche se stesso. «Bisogna dipingere contro e non per». Così non è vero che fu prima cubista e poi un pittore del Richiamo all'Ordine, sottomesso a Ingres. I suo taccuini parlano chiaro: lo stesso giorno era capace di dipingere la moghe in stile cubista e, la sera, l'amante, con tratto neoclassico. Quello che rimase sempre era il realista. Come ha capito, in un saggio perspicace, un altro pittore, David Hockney. Altro che mostri astratti, con tre nasi o cinque occhi. «E' così che vedo la mia amica, mentre la bacio, disteso a letto». Quella era la sua verità, il suo realismo. Per tutta levita pensò di dover scoprire che cosa fosse dipingere

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