Guerra «ebraica» al Raiss? Israele dissente di Fiamma Nirenstein

Guerra «ebraica» al Raiss? Israele dissente IL DIBATTITO SOLLEVATO DA «HAARETZ»: BASTA GUARDARE CHI SONO I MAGGIORI ISPIRATORI DELLA CASA BIANCA Guerra «ebraica» al Raiss? Israele dissente «La logica è americana, ma c'è un nesso con la nostra situazione» analisi Fiamma Nirenstein DEI circa sei milioni di ebrei che vivono negli Usa, la percentuale di chi è a favore e di chi è contro la guerra è identica ; nel Congresso, l'ottobre scorso, i deputati ebrei hanno votato a favore della guerra in percentuale minore a quella generale dei favorevoli. Eppure la pubblica opinione in Israele, e in generale il dibattito ebraico nel mondo, si occupa moltissimo di un fenomeno che Ari Shavit, un giornalista di ottima levatura, ha descritto nel fine settimana sul quotidiano Haaretz, in un articolo dal titolo scherzoso «Il fardello dell'uomo bianco». Vi si parla della vox populi americana per cui un gruppo di intellettuali neocoservatori ebrei sarebbe il maggiore ispiratore del Presidente nella sua decisione di intrapredere la guerra in corso. Il gruppo, dice Shavit, vive la sua avventura intellettuale come una missione di civilizzazione, una indi¬ spensabile impresa non solo tesa a mondare il Medio Oriente dalle anni di distruzione di massa e dal ten-orismo, ma anche a disegnare un mondo in cui regni la democrazia come antidoto allo scontro delle civiltà e delle religioni. Shavit non è il solo in Israele o occuparsi della faccenda, la discussione ferve anche su altre testate alla tv e alla radio. In Israele la cosa preoccupa e intriga nello stesso tempo. Preoccupa, perché negli Usa ha sollevato ondate di aggressività antisemita. Intriga, perche l'idea americana che solo la democrazia possa dare pace al Medio Oriente e che Saddam rappresenti un gigantesco pericolo è in genere condivisa: Israele dall'Iraq ha ricevuto sempre e soltanto maledizioni, promesse di morte e distruzione, fin dal 1948, quando fu l'unico a non firmare l'armistizio, e oggi Saddam dona 25 mila dollari alla famiglia di ogni terrorista suicida. Un altro importante articolo sull'argomento è uscito sul «Jerusalem Post»: sulla copertina del suo settimanale del 21 marzo il giornalista Bret Stephens parla addirittura (con evidente sarcasmo) di «The Jewish War», la guerra ebraica, e il contorno di foto ci mostra i falchi di cui parla anche Shavit: politici-intellettuali come Paul Wolfowitz, Douglas Feith, Eliot Abrams, e giornalisti di peso come William Kristol, direttore del «Weekly Standard», Charles Krauthammer, editorialista del «Washington Post» e del «Time», e anche Tom Friedman, il fiammeggiante editorialista del «New York Times». Che cosa dicono dei neconservatori ebrei negli Usa? Cose per cui Abe Foxman, il capo dell'AntiDiffamation League, ha protestato. «Se non fosse stato per il forte supporto della comunità ebraica, non staremmo facendo questa guerra contro l'Iraq», dice il congressman democratico Jim Moran. «Richard Perle, Paul Wolfowitz e Kristol sono la gang di intellettuali conservatori che spinge avanti la guerra» ha scritto sul «New York Times» Maureen Dowd. George Anne Geyer, commentatore del «Washington Times»: «La campagna dell'Iraq è uscita prima di tutto da falchi prò Israele». E via così, per un bel pezzo. Che cosa dicono gli israeliani di questo? Rispondono che è certo vero che alcuni fra i più articolati sostenitori della guerra sono ebrei; è anche vero che alcuni fra i più articolati militanti antiguerra sono a loro volta ebrei, come Susan Sontag, il drammaturgo Tony Kusher, il direttore di Tikkun Michael Lemer, l'editorialista del «New York Times» Paul Krugmann. La realtà dei neoconservatori ebrei ha un carattere comunque nuovo, che fa parlare di loro, perché in genere la comunità ebraica è stata sempre di sinistra. Un altro carattere discusso è che si tratta di militanti decisi, in prima linea, enormememnte scoperti: Kristol spiega a Shavit che «il problema del Medio Oriente e il suo essere immenso terreno di cultura per il terrorismo è l'assenza di democrazia. Quindi l'unico modo per bloccare gente come Saddam Hussein e Osama bin. Laden è disseminarla, cambiare radicalmente le politiche e la cultura che hanno dato i natali a questo fenomeno». Krauthammer sostiene che gli americani sono detenninati ad agire subito, dopo aver subito l'H settembre, perché sanno che non c'è più tempo contro il terrore e le armi di distruzioni di massa. Insomma, dice che è una logica tutta americana quella in cui la guerra viene condotta, e per niente israeliana. Tuttavia, la guerra propone un nesso con la situazione israeliana che ancora non è in primo piano, ma già affiora nel pensiero dei neoconservatori, e lo costringe a acrobazie: in realtà la guerra ripropone a Israele con insistenza la tematica del «Nuovo Medio Oriente» di Shimon Peres. In una visione che certo non ha a che fare con nessun «falco» il Premio Nobel vedeva nella pace il nesso fra Medio Oriente, sviluppo e democrazia. Adesso, se il Medio Oriente secondo le speranze dei neoconservatori dovesse cambiare, Israele dovrebbe tornare al processo di pace. Infatti Israele sa, e Bush insieme a Tony Blair in caso se lo scordasse glielo ripete di continuo, che «la road map è importante quanto la guerra contro l'Iraq», ovvero che uno dei orimi cambiamenti grossi che la guerra deve portare è il riawio di un tavolo di trattative. Se i «falchi» americani ebrei fossero così «israeliani» e così «falcili» non avrebbero mai portato Bush a battere il pugno sul tavolo per la road map, come invece fa.