Un mito americano di Claudio Gorlier

 Un mito americano Un mito americano «ABis Un mito ampasso di lumaca, i Joad e i Wilson, ora una sola tribù, strisciavano verso ponente. El Reno, Bridgeport, Clinton, Elk City, Sayre, Texola. Ecco l'Oklahoma ormai alle spalle. Interminabile, la prima tappa nel Texas: Shamrock, Alanreed, Groom, Yamell, Amarillo, e oltre». Questo è «Furore», il memorabile romanzo di John Steinbeck, inizio del sedicesimo capitolo, e forse l'epica più memorabile della Route 66. Schiacciati dalla crisi economica, questi «Oaks», poveri contadini dell'Oklahoma, su due trabiccoli, viaggiano diretti alla California, dove sperano di trovare lavoro. Siamo nei primi Anni 30 e questa è la parte più solitaria, arida, polverosa, della Route 66 la «Dust bowl», la scodella di polvere; la strada costruita nel 1926 e che, in 4000 chilometri, da Chicago arrivava fino a Los Angeles. La nube di polvere caratterizza il viaggio, anche qui alla ricerca forse illusoria di una sistemazione, tra angoscia, speranza, interrogativi senza risposta, del protagonista di una classica canzone di Woody Guthrie, uno dei signori del country, «Blowing Down That Old Dùsty Road», viaggiando come in un'ossessione su quella vecchia strada polverosa. Io sono stato più fortunato dei Joad, dei Wilson, e di Woody Guthrie, con un ma. Quando, negli Anni 60, con la mia solita Ford Fairlane a sei cilindri percorsi proprio quella parte della Route 66, la strada era ormai asfaltata e a due corsie. Il ma sta nel fatto che, pur esperto delle autostrade americane, avevo colpevolmente trascurato un elemento fondamentale degli Stati Uniti: la distanza, gli spazi liberi e talora desertici. Così, proprio tra Oklahoma e Texas, mi illusi che mi bastasse il carburante, convinto che prima o poi avrei trovato vai distributore di benzina. Purtroppo il distributore di benzina non si materializzava mai, e io guardavo con ansia crescente l'indicatore sul cruscotto che si avvicinava inesorabilmente allo zero. Alla fine, mi andò bene, perché in aperta campagna mi imbattei - quasi ci piombai addosso - nella modema versione ancora con caratteristiche tradizionali, di un «trading post», quel gruppo di case con ristorante e alberghetto noto mericano a tutti i fedeli del western, perché vi sostavano le diligenze per un breve riposo e un cambio di cavalli. C'erano almeno venti auto in coda per far benzina: ero in buona compagnia. Nessun europeo sa comprendere che cosa negli Stati Uniti significa la distanza, il vuoto. Ora la Route 66 non esiste più nel suo percorso totale, è soltanto un mito americano. Ma le fotografie di Fontana mostrano i totem che ancora si ergono sulle vecchie strade, a cominciare dai «grain elevators», questi edifici in legno ove si usava accumulare il grano per caricarlo poi su autocarri o su vagoni ferroviari. Il mito, naturalmente, dopo Jack Kerouac, Alien Ginsberg e la beat generation, si chiama «on the road», espressione che non sollecita traduzione. I miei amici «beat» viaggiavano, in genere, più a Nord nel loro itinerario verso la California, altre strade che conosco bene pure quelle. Comunque, «on the road» si può identificare del tutto legittimamente con la Route 66 e, naturalmente, con i Greyhound, gli autobus che viaggiano quasi inesorabilmente da costa a costa. Non stupisce che la Route 66 abbia trovato nuovi cantori oltre a Guthrie: tra l'altro, Nat King Cole, i Rolling Stones. La gente che vive da quelle parti non è f ^nbiata. Potete star certi che, come non sapevano bene dove si trovasse il Vietnam, oggi si domandano con stupore che cosa possa mai essere questo luogo misterioso chiamato Iraq. Se nell'Illinois, o nel Missouri, da Chicago a Saint Louis, l'America urbana si fonde con quella agricola, dopo Tulsa (una città il cui centro mi ricorda stranamente Torino per la sua geometria e gli edifici liberty) fino a Santa Fé e oltre, vi immergete nell'America senza tempo, dove lo spazio, interrotto da piccole comunità, ha sostituito quella che per noi europei è la memoria storica. La gente combatteva la solitudine, più ancora che con la tv, conversando che con la tv. Ho ancora nelle orecchie le domande curiose sull'Italia, e poi il saluto di congedo, come se ci fossimo sempre conosciuti, «bave a nice time, Claudio», passatela bene. Claudio Gorlier