Questione morale, l'era del fai-da-te

Questione morale, l'era del fai-da-te UN PROBLEMA ANTICO CHE NEGLI ULTIMI ANNI HA ACQUISTATO UN SIGNIFICATO NUOVO Questione morale, l'era del fai-da-te Mario Poglian! LA questione morale - nel significato che a quest'espressione è stato universalmente e concordemente attribuito in Italia a partire dagli inizi degli anni Ottanta - riguardava esclusivamente la simonia, e cioè la vendita, da parte del titolare di un potere pubblico, del contenuto di un atto d'esercizio di quel potere, al fine di ricavarne - come prezzo - un'utilità privata. E' evidente che oggi, parlando di questione morale, si fa riferimento a un significato nuovo; si dà per scontata una mutazione di senso che essa ha subito. L'utilità privata - di chi tanto si discute a proposito di innovazioni legislative in campo successorio, fiscale, penale sostanziale e processuale -del titolare del pubbhco potere, produttore dell'atto, non è infatti più il prezzo di ima vendita simoniaca del suo contenuto, ma il godimento diretto dell'effetto giuridico dell'atto stesso. La nuova forma della questione morale consiste nel produrre atti di diritto pubblico stbi et suis, e non più nel vendere la produzione di atti di diritto pubblico in cambio di favori sifti et suis. La trasformazione è di grande rilievo. Il profilo tradizionale della questione morale consisteva nella violazione del divieto in forza del quale il titolare di pubblici poteri non può procacciarsi utilità private barattando la propria azione pubblica con ricompense private; da parte dei beneficiari dell'azione medesima. Lasciamo in disparte i difficiU problemi di confine che questo tema pone in relazione ai rapporti tra l'attività degli imprenditori politici (in senso schumpeteriano) e i loro gruppi sociali dì riferimento (il problema del voto di scambio), e limitiamoci a prendere atto che se quel divieto ha un contenuto giuridico che può essere sfuggente, soprattutto se riferito allo svolgimento dell'attività legislativa, è tuttavia fondato sul comune sentire secondo il quale la simonia è un delitto, un malum in se. Su questa base è agevole constatare che il profilo attuale della questione morale è (parzialmente) diverso, perché (parzialmente) diverso è il principio violato dalla legislazione progettata sibi et suis: non più il divieto di simonia, ma il principio della buona fede legislativa. Certo, entrambi sono specificazioni e conseguenze del divieto del mandato imperativo, e dunque del principio - che da quel divieto è istituito e garantito - del carattere nazionale della rappresentanza, ove l'aggettivo «nazionale» sta tradizionalmente ad indicare che gli interessi perseguiti dagli organi rappresentativi devono essere riconducibili all'intera collettività nazionale. Certo, i campi di battaglia e le mutili stragi sono solo l'esempio più eloquente degli usi che di quel principio possono essere fat- ti, ma si deve riconoscere che esso rappresenta pur sempre un tentativo, per lo meno sul piano dell'ideologia, di distinguere un governo costituzionalmente corretto da un comitato d'affari. D'altra parte la dimensione nazionale della rappresentanza non è che la forma moderna (piopria del costituzionalismo liberale) con cui si ribadisce un'idea molto più antica: quella della distinzione tra il bene pubblico e generale e gli interessi privati dei governanti. Idea tanto importante da aver richiesto, per secoli, che la definizione del bonum commune fosse sottratta alla politica e rivestita della solennità della teologia, che annodava continuità tra i suoi contenuti, la retta ragione e la provvidenza divina. Tanto la simonia che l'eserci¬ zio del potere sibi et suis sono dunque violazioni del medesimo principio. Esso però, nel primo caso, è violato in modo più plateale, immediatamente percepibile. La simonia rappresenta un livello elementare, intuitivo, della questione morale perché consiste in comportamenti assimilabili a quelli di un comune bandito, un estorsore. Il parlamentare, o il pubbhco funzionario, corrotto è odioso perché è assimilabile al grassatore che pretende il pizzo, al funzionario (pubbhco o privato) che vende la presa in cura di una pratica, al medico che vende la priorità di un ricovero, al professore che vende una promozione... Invece, la violazione del divieto di mandato imperativo sue specie di violazione del principio di buona fede legislativa è molto più sottile e sofisticata. Qui, abbiamo visto, l'illiceità non deriva dal fatto che l'eletto si pone come mandatario di interessa particolari altrui, ma dal fatto che l'eletto, dichiarando di agire come legislatore, e cioè in funzione di interessi «nazionali», tutela e gestisce interessi particolari propri. La differenza fondamentale sta nel fatto che mentre nel primo caso il prezzo ricevuto è la prova del particolarismo che motiva e domina lo svolgimento della funzione pubblica (seppure sul piano della giurisprudenza parlamentare in tema di immunità il punto non sia del tutto pacifico), nel secondo questa prova «esteriore» manca. Si potrebbe dire che nel primo caso il divieto di mandato imperativo e il principio della buona fede legislativa sono violati in modo indiretto, attraverso il compimento dell'atto simoniaco che rende oggettiva la violazione stessa; nel secondo in modo diretto, attraverso una pura menzogna, che non è comprovata e oggettivata da alcun comportamento esteriore. Si motiva pubbhcamente una determinata innovazione legislativa come dovuta a un'interpretazione politica dell'interesse nazionale, mentre il motivo dominante è la cura di un interesse privato (che certo può coincidere con quello di molti altri privati). II Palazzo di Giustizia di Milano, simbolo delle inchieste su Tangentopoli

Persone citate: Mario Poglian

Luoghi citati: Italia, Milano