DEMOCRAZIE BLINDATE di Michele Ainis

DEMOCRAZIE BLINDATE GLI SCENARI APERTI DALLA GUERRA IN IRAQ DEMOCRAZIE BLINDATE Michele Ainis LA guerra macina giorno dopo giorno le sue vittime, e intanto inalbera il proprio manifesto sul campo di battaglia: liberare gli iracheni da un tiranno, consegnandoli alla democrazia. Ma è giusto esportare la causa democratica con le armi? E in secondo luogo, siamo proprio certi che la democrazia corrisponda alle aspirazioni, ai valori, insomma alla cultura di ogni popolo sulla faccia della terra? O ce il rischio viceversa d'edificare istituzioni fragili, che il primo soffio di vento se le porta via? Infine: un ordinamento democratico (nelle varie forme fin qui sperimentate dalle nazioni occidentali) può adottare modelli autoritari nei suoi rapporti con l'esterno, mantenendosi ciò nonostante inalterato al proprio interno? Sono questioni formidabili, cui è possibile rispondere in modo diametralmente opposto. Per il celebre islamista Bernard Lewis sì, la democrazia è un abito che il popolo iracheno può ben indossare. E dello stesso avviso Panebianco, che in un fondo sul Corriere cita inoltre il precedente del Giappone, guadagnato alla democrazia dopo la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale. Altre esperienze, tuttavia, suonano assai meno confortanti. Per esempio la caricatura del presidenzialismo made in Usa applicato negli Stati dell'America latina. O altrimenti la debacle dei regimi comunisti nell'Europa dell'est, dove pure il socialismo era stato imposto «sulla punta delle baionette» a paesi d'antica tradizione liberale. Ecco perché i fautori del relativismo culturale in genere diffidano di tali operazioni. E fra costoro bisogna iscrivere anche il vecchio Montesquieu, che nell'Esprit cks lois ammoniva come ogni regime politico debba necessariamente coniugarsi con gli usi civiB e religiosi dei popoli, con le caratteristiche del territorio in cui essi vivono, perfino con il clima. E c'è poi un'ultima questione, che prescinde dalle sorti del dopoguerra in Iraq, ma in conclusione mette in gioco la nostra identità. Giacché se in futuro il seme delle democrazie non dovrà attecchire (solo) dal consenso, ma quando serve pure dalla forza, bisognerà allora prepararsi a una lunga guerra di civiltà, alla competizione armata fra valori politici, piuttosto che religiosi: dopotutto, la democrazia è ancora un lusso di alcune nazioni ricche (82 Stati su 200, secondo l'Human Development Report 2002 dell'Gnu). E in secondo luogo avremo definitivamente risposto all'eterna domanda degli ordinamenti liberali: si devono tollerare gli intolleranti? Sul fronte esterno no, come insegna questa vicenda irachena; quindi neppure al nostro interno. Significa mettere al bando uomini, idee e partiti di fede antidemocratica, i neofascisti, i neocomunisti, i fondamentalisti d'ogni credo. Significa, in breve, trasformare le istituzioni occidentali in altrettante democrazie blindate, in «democrazie che si difendono». Può essere un bene o no, ma è questo il nostro fronte interno, l'esito futuro delle bombe che ora cadono su Baghdad: dobbiamo pur saperlo. micheleainis@tin.it

Persone citate: Bernard Lewis, Panebianco

Luoghi citati: America, Baghdad, Giappone, Iraq, Usa