diario arabo

diario arabo Il maestro degli scoop non si è accorto che è cambiata l'America diario arabo SE volete incontrare Peter Arnett, fate esplodere un po' di bombe in città. Mentre la gente fugge in preda al panico, lui è quello che corre verso le esplosioni urlando in un microfono». Ipse dixit Christopher Morris nel marzo del 1994. Allora furoreggiava in Bbc, conducendo un programma satirico. Prendendo spunto dal (vendutissimo) libro di Peter Arnett: Livefrom the Eattlefield (stampato in Italia da Sperling Er Kupfer) il Morris dissacrò il giornalista che nella prima Guerra del Golfo rimase a Baghdad, sotto le bombe, raccontando la guerra per la Cnn.Fece uno scoop mondiale: l'intervista con Saddam Hussein, giudicata subito un classico del giornalismo televisivo. Curzio Malaparte diceva che (quelli della nostra categoria, insomma i cosiddetti colleghi) ti perdonano tutto, sinanco la rapina a mano armata ma non il successo. Quell'intervista «irritò» Bush-padre ma quando il solito senatore zelante propose di incriminare Arnett poiché «dare aiuto e conforto al nemico in guerra può configurarsi come reato di tradimento», il presidente replicò secco che la libertà di stampa non ha prezzo, specie negli Stati Uniti. Fu così che Peter salvò onore e libertà. Questa volta il guaio è (forse) più grosso: il network televisivo per il quale lavorava lo ha licenziato in tronco. Intervistato (pour cause: rincorre anche stavolta l'intervista col Tiranno) dalla tv irachena ha osato svelare il segreto di pulcinella: «Gli Usa hanno sbagliato i piani, non s'aspettavano che gli iracheni resistessero». Persino Walter Cronkite, il celeberrimo anchorman che con i suoi reportages accelerò la sconfitta in Vietnam, lui che il presidente Johnson non amava certo e tuttavia subiva perché la libertà d'espressione è nel DNA degli americani, persino il Grande Walter critica acido Peter sfiorando semanticamente «l'alto tradimento». Arnett che ha immediatamente firmato un contratto col Daily Mirror, ha subito replicato agli attacchi, e insieme ringraziato i tanti che gli hanno espresso solidarietà: «Ho detto la verità e non chiederò scusa per questo». In Vietnam dove lo conobbi, ebbi anche modo di lavorare gomito a gomito con lui. Magro, seguito dalla radiosa moglie Tu Nga (Autunno), aggressivo, spericolato Peter se la prendeva spesso coi parò rimproverandoli di calpestare il codice d'onore americano. Insomma, rompeva le scatole. Dopo l'offensiva del Tet, regnando Nixon, alla sede della AP di Saigon giunse un messaggio della direzione che, in fatto, invitava Arnett all'autocensura: i suoi reportages «in alto loco» non piacevano. «Che debbo fare?», chiese Peter al suo capo-ufficio, Dave Mason, e quello: «Continua», rispose. Oggi, invece, il vecchio Peter ossessionato dal dovere di dire tutto a tutti, costi quel che costi («la notizia non si tradisce») l'hanno licenziato su due piedi. «Tutto mi sarei aspettato, non questo, che succede?», dice Peter Arnett, Premio Pulitzer, 68 anni, ferito, anche «dentro». Caro Peter è semplicemente successo che dopo 1' 11 di settembre è cambiato tutto. L'America di oggi è diversa da quella di (appena) ieri. Speriamo che questa guerra non l'incattivisca, non limiti la libertà per la quale sono caduti (e muoiono) tanti bravi ragazzi. Recita il Corano: «Poi, dopo quell'immenso dolore. Dio vi diede un sorso di tranquillità» (III, 154).

Luoghi citati: America, Baghdad, Italia, Saigon, Stati Uniti, Usa, Vietnam