Chi si firma e cacciato di Giovanna Zucconi
Chi si firma e cacciato UN COLLEZIONISTA DI AUTOGRAFI È PROTAGONISTA DEL SECONDO ROMANZO DI ZADIE SMITH, NUOVO FENOMENO LETTERARIO D'AMERICA Chi si firma e cacciato Giovanna Zucconi FOTOGRAFATA mentre infila la chiave di casa nella toppa, in jeans e maglietta, con i capelli raccolti in un fazzolettone e col sorriso imbarazzato, come un'attricetta qualunque sorpresa in piena sciatteria domestica e sbattuta sulle pagine di un rotocalco. Quando diventi famosa, rubano la tua immagine - o ti trasformano nella tua immagine. A Zadie Smith è successo. A ventitré anni, ragazzina dei sobborghi londinesi di padre inglese e madre giamaicana, ha scritto Denti bianchi, una scatenata saga multietnica. Un milione di copie, secco. E un milione di copie significa innegabilmente essere famosi: premi, interviste, un serial televisivo, soldi, foto sui tabloid, tutta l'isteria che circonda un'opera prima di anomalo successo. Poi arriva l'opera seconda, che si intitola L'uomo autografo ed è (anche) un atto di rivolta contro la celebrità, l'ossessione per la celebrità, il culto delle celebrità. Punto primo, negare. E lei, raggiunta all'università americana di Harvard dove si è ritirata a studiare letteratura per un anno, nega: «Non sono famosa. Non voglio essere famosa. Non sarò mai famosa». Fra tutte le gradazioni possibili, dallo scrittore vanesio che imperversa nei salotti tv alla ringhiosa reclusione in stile Salinger, alla popolarità letteraria Zadie Smith reagisce con il contrattacco. Punto secondo, scindere ben bene l'opera da chi l'ha scritta. «Non sono famosa io, è famoso Denti bianchi, e lo sarà sempre più di me o di qualsiasi libro scriverò in futuro. Se essere una star può essere opprimente? Non lo so e non voglio saperlo. Per un libro, il successo è eccessivo quando non può più essere letto a testa sgombra e con il cuore innocente. Io Denti bianchi non l'ho mai letto, ma so di gente che non c'è riuscita perché ne aveva sentito parlare troppo». Punto terzo, reagire. E un romanzo di 472 pagine è un'ottima arma per farlo. Il protagonista si chiama Alex-Li, madre ebrea e padre cinese, professione cacciatore di autografi. Non per collezionarli, la sua non e una passione pura, lui è un commerciante che gira con nella valigetta il suo campionario di schegge di celebrità. Le valuta, le scambia, le vende, talvolta le falsifica. Denaro contro fama. Solo che ha un'ossessione, per un'attrice ormai invecchiata e dimenticata che decenni prima si stirò le palpebre con il nastro adesivo per impersonare una cinesina in un musical: la sua firma, con un vezzoso cuoricino sulla i di Kitty, è il sacro graal dell'uomo-autografo. E ha un'altra ossessione Alex-Li, questa però rimossa e negata: accettare la morte del padre, celebrarne i riti in nome di un dio in cui però non crede. In mancanza di una fede, è il nome a diventare dio - il nome autografato, il cimelio di gente famosa, l'immagine di quelle divinità residuali che sono, oggi, oggetto di un culto polverizzato e superficiale: «Uno potrebbe possedere quelle fotografie e condividere (quantunque in misura assai ridotta) la fama di quelle persone e la loro straordinaria abilità nel negare alla morte ciò che più la gratifica: l'oblio». L'uomo autografo, dice Zadie Smith, «è una sorta di kaddish, una liturgia, una preghiera funebre. Ha un andamento triste e, almeno : aro, lirico». Come reagisce un ventenne imbevuto di cultura pop alla morte e al lutto? Il romanzo è (anche) un esorcismo autobiografico: «L'ho scritto quando mio padre sembrava potesse morire. Partendo da questa mia esperienza soltanto tangenziale del lutto, direi che bisogna decidere se la morte è un'interruzione o una conti¬ nuazione della nostra esperienza. Solo che non è una scelta del tutto razionale, è questo che le religioni capiscono e l'umanesimo invece non coglie. Nel libro, Alex impara a prendere questa decisione con la testa e insieme con il cuore, come raccomandava Aristotele. È questo il senso del romanzo. E così, non avete bisogno di leggerlo». O forse invece sì. Per stabilire, ad esempio, quali sono le vere «sacre scritture» della nostra epoca: gli autografi oppure i testi delle religioni tradizionali? «Se esiste, com'è probabile, il rapporto fra culto delle star e culto religioso è banale, disprezzabile e terribilmente meschino. Scriverne mi ha depresso. Il polverone che circonda le celebrità è insopportabile. E allora dico: basta. Basta comprare le rivi- ste, guardare la tv, andare al cinema. Io ci provo, non leggo più i giornali e i film li vedo solo in dvd, e cerco di fare a meno della televisione, anche se è difficile perché vivo in America. Bisogna smetterla di frignare e di fare i moralisti, e buttare semplicemente il telecomando nella pattumiera. Coraggio, si può fare». Lo schermo, grande e piccolo, come fonte di malsane ossessioni e di falsi miti. Forse dietro l'insofferenza di Zadie Smith c'è una delusione. Neanche le star sono più quelle di una volta. «Mi interessa l'idet' die un'identità mitica possa nascere soltanto dall'immagine, che non si basi su alcun talento reale. Solo che succede una volta ogni vent' anni. Jimmy Stewart, Humphrey Bogart, Clark Gable, e nella mia generazione soltanto Madonna. Gente senza talento ce n'è tanta, ma nessuno che diventi un'icona a prescindere da quello che fa o che dice». Nessuno scrittore, nel Dantheon delle celebrità. La etteratura, dice questa agguerrita e divertita ventisettenne, «è dove trovo quello che cerco: una viva, ostinata, comica intelligenza». Ed è lo snodo, l'unico forse oggi possibile, con la fede: «c'è un legame fra i testi religiosi e il romanzo, entrambi poggiano su questioni etiche. Il libro di saggi che sto scrivendo adesso è su questo. E i migliori critici letterari dell'Uomo autografo sono stati dei rabbini». Lo scrittore non soltanto rifugge il culto dell'immagine, è capace di arrestarsi davanti all'immagine convenzionale di un personaggio o di un paese, e ammettere di non poterla afferrare del tutto. Per esempio, l'America: «Ah, quegli intellettuali europei che pensano di capire tutto dell'America. No, non ne sappiamo niente, non puoi capira se non ci sei nato, negli Stati Uniti io mi sento un'aliena e ho nostalgia di Londra, sempre, ogni minuto. Forse l'atteggiamento giusto era quello di Nabokov: una sarcastica curiosità, senza far l'errore di pensare che un Humbert possa mai capire davvero una Lolita». A Harvard, Zadie Smith lavora di fronte alla stanza che fu dell'emigrato scettico Nabokov. Una scrittrice che non vuole diventare famosa: «Famosi sono i miei libri». À23 anni la prima opera: «Denti bianchi», successo da un milione di copie Adesso, a 27 anni il nuovo exploit deir«Uomo autografo» «Esiste un rapporto tra il culto delle star e quello religioso. Ed è meschino. Scriverne mi ha depresso. Detesto il polverone che circonda le celebrità: perciò non leggo più i giornali non vado al cinema e ho chiuso con la tv» Zadie Smith, di padre inglese e madre giamaicana, si è ritirata a Harvard per studiare letteratura. [FOTO DI BASSO CANNARSA1
Luoghi citati: America, Harvard, Londra, Stati Uniti
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