Lezione di pace a Sarajevo

Lezione di pace a Sarajevo SCUOLA DI VITA Lezione di pace a Sarajevo Sessanta studenti di dieci licei piemontesi visitano la città bosniaca 8 anni dopo la guerra per iniziativa della Regione e delle Province LODOVICO POLETTO | inviato a Sarajevo Spettrale. Sventrato dalle bombe, annerito dagli incendi, lo scheletro di cemento dell'ex palazzo del parlamento svetta all'ingresso della città. Sarajevo, otto anni dopo la fine dolìa guerra, porta ancora i segni della devastazione. Gli alberghi e le banche, rimessi a nuovo, pieni di uomini di affari e i caffè del centro brulicanti di ragazzi che ascoitano la musica degli U2 e di Eminem sono soltanto una faccia di questa metropoli dei Balcani che fatica a tornare alla normalità. L'altra, quella che sfugge ad un prima occhiata, è quella della povertà diffusa e dell'angoscia periin improvviso salto indietro nel tempo, a otto anni fa, quando il conflitto etnico falciò in un giorno decine di persone. Un aspetto che neppure le organizzazioni intemazionali e i militari delle forze di Peace Keeping riescono a cancellare con la loro presenza e il loro lavoro, con i costanti rastrellamenti di armi casa per casa con le pattuglie che girano in città e nei paesi della collina a raccogliere informazioni fra le migliaia di profughi e sfollati che ancora vivono in baracche. In questo scenario, da tre giorni, si muovono sessanta ragazzi jiemontesi, studenti di dieci scuoe superiori della regione (il Liceo Classico Baldessano di Carmagnola; l'Istituto Magistrale Regina Margherita; l'istituto Tecnico Guarini di Torino; il Liceo Palli di Casale Monferrato; lo Scientifico Pascal di Ovada; il Saluzzo di Alessandria; lo Scientifico di Borgosesia; il Gobetti di Omegna; il Cavalieri di Verbania; il Galilei di Nizza Monferrato) che hanno vinto il concorso bandito dal Consiglio regionale e dalle province piemontesi sul tema delle nuove guerre. Avevano raccontato di come sono cambiati i conflitti nell'ultima parte del Novecento; avevano spiegato cosa significa epurazione etnica, persecuzione, ma mai avrebbero immaginato che qui, dove cannoni tacciono ormai dal 1995, lo spettro della guerra fosse ancora così vivo. E la gente continuasse a morire per i due milioni di mine seminate in campagna, oppure sopravvivesse con stipendi da 150/200 euro al mese e la ricchezza fosse il salario di 300 eviro che i soldati del German-Italian Battle Group pagano agli operai civili che vanno a lavorare nel loro quartier generale. Rigorosamente mescolati tra loro secondo una regola che hanno imposto i vertici e che prevede, in caso di gruppi, che uno accanto all'altro operino un serbo, un bosniaco e un croato, in modo da costringere all'integrazione. Ed è con curiosità e angoscia che il popolo degli studenti si inserisce nella vita della città. L'incontro con i militari della Taurinense e quello con i loro colleghi del liceo Prva Gimnaziha hanno rappresentato due forti momenti d'impatto emotivo e così c'è chi come Mattia Bonaguro, diciannovenne di Carmagnola, prova per la prima volta a giudicare in modo diverso i soldati. «Perché quando sei lontano da posti come questo - dice - ti immagini le truppe che giocano alla guerra. Invece, qui, è tutto diverso. Sono loro i veri poliziotti, sono loro i veri gendarmi del posto, sono loro che garantiscono questa pace». Se domani se ne andassero, racconta chi in queste terre c'è nato e cresciuto, tutto tornerebbe presto come nel '95. Ma sono i cimiteri con le loro distese di steli bianchi, spuntati come funghi in tutti gli angoli della città, i veri pugni nello stomaco di chi la guerra l'ha vista soltanto attraverso le immagini della tv. «Sono grandi come il mio paese queste distese di morti - dice Federica Sala di Ornavasso, in provincia di Verbania - chi non è mai venuto qui non può capire, passeggi in centro e vedi spianate di lapidi. parli con la gente e ti raccontano che nei giorni di guerra neppure riuscivano a dare sepoltura alle vittime perché dalla collina i cecchini bersagliavano chi andava al funerale». Emozioni. Che i ragazzi, spesso, non riescono neppure a spiegare. Lido Riha, vicejresidente del consiglio regionae, che ieri si è unito agli studenti, dice: «Vedere le conseguenze di un conflitto vale più di qualunque corso di storia, questi ragazzi saranno testimoni pronti a rac¬ contare ai loro compagni e alle loro famiglie cosa significa ricostruire la pace. Il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio Regionale da sempre porta avanti questo progetto ed i risultati ottenuti nel passato ci hanno convinto a tentare un'esperienza come questa, il viaggio in un paese nel quale il conflitto è appena terminato». Sarajevo, con il suo sforzo di normalità, è un po' un'eccezione nel panorama della Bosnia. A venti chilometri fuori dalle mura interi paesi mostrano case sventrate, i profughi sono ricoverati in baracche scippate ai serbi, allontanati con la forza. E le mine, una minaccia costante come il «rito» della raccolta di armi che avviene con la supervisione del colonnello Marcello Bellacicco, comandandante del GermanItalian Battle Group Gli occhi dei ragazzi queste cose non le vedranno; il loro viaggio ha altri percorsi. Mattia di Carmagnola «Ho visto in azione i militari della Taurinense Immaginavo truppe che giocavano alla guerra invece ho capito che sono custodi di questa gente» Federica di Ornavasso «Chi è lontano non può capire: vedi campi di lapidi grandi come il mio paese e la gente racconta che si facevano i funerali sotto la mira dei cecchini» Immagini del recente passato di Sarajevo: accanto, in una foto del 1996, una donna attraversa le rovine di Dobrinja, sobborgo alle porte della città; sotto, una foto del 1999: alle spalle di due militari americani il palazzo del Parlamento bosniaco bombardato ììì

Persone citate: Battle, Di Vita, Federica Sala, Galilei, Gobetti, Marcello Bellacicco, Mattia Bonaguro, Ornavasso, Peace