«Cinque giorni in prigione ma ci trattarono bene»

«Cinque giorni in prigione ma ci trattarono bene» UNO DEGLI INVIATI PROTAGONISTI DELL'EPISODIO ERA GIÀ' STATO CATTURATO NELLA GUERRA DEL '91 «Cinque giorni in prigione ma ci trattarono bene» Lorenzo Bianchi, del «Resto del Carlino», aveva raccontato più volte ai colleghi quella esperienza: «I militari iracheni si sfogavano con noi» personaggio Pierangelo Sapegno CI ERA anche un americano con noi. Quando ci portarono nello stanzone, ci guardò tutti e si mise a ridere: we fiicked pools, and we were fucked. Abbiamo fregato i pool di giornalisti e ci siamo fatti fregare. Solo lui aveva voglia di ridere. Non rise nessuno. Un colonnello iracheno, mentre ci accompagnava, ci ripeteva di continuo la stessa cosa, come per tranquillizzarci: «Vi trattiamo bene. Questo era il mio alloggio. Ho dovuto traslocare per lasciarlo a voi». Non gli davamo molto retta. Bastava guardarsi in giro per dubitarne. Era un salone di 4 metri per 10. Ci avvolgevamo con un paio di coperte. Una sostituiva il materasso, l'altra il lenzuolo. Erano polverose, strappate, zozze. Ma non era proprio il caso di fare gli schizzinosi. Lì dentro stavamo in 26. In un'altra stanzetta, 12 francesi, l'ala dura dei prigionieri, che rispondeva male, che cercava la lite. Era Bassora, marzo 1991, prima guerra del Golfo. Lorenzo Bianchi, da Bologna, 50 anni, inviato di guerra del gruppo Riffeser, uno dei 7 giomalisti italiani presi ieri dagli iracheni, c'è ricascato di nuovo. E' il rischio che corre chi fa bene il suo lavoro. Ancora a Bassora, come quella volta, quando venne catturato dalla guardia repubblicana e rilasciato dopo 5 giorni di prigionia, che a sentire i suoi racconti non fu poi così terribilmente dura: ci sono situazioni da inviato anche peggiori di quelle. Allora era la fine del conflitto. Saddam s'era arreso, e i reporter passavano den- tro l'Iraq correndo su una Toyota nuova fiammeggiante, sobbalzando sulle strade polverose che portavano a Bassora, salutati da giovani sbandati in divisa che li salutavano con il segno della vittoria. «Io avevo appena chiamato Marco Leonelli, il mio direttore al Resto del Carlino. Provo ad entrare, gli avevo detto. Ci sono voci di disordini, si parla di una ribellione. Tremila sciiti avrebbero occupato i posti di polizia. M'aveva risposto come fanno tutti i direttori del mondo: stai attento». Erano partiti in 3: lui, Giovanni Porzio, di Panorama, e Gabriella Simoni, di Italia 1. I giomalisti erano tutti gruppetti di cani sciolti. Quando vennero presi, «ci radunarono insieme, all'inizio dentro all'Università di Bassora: eravamo in 38, inglesi, francesi, americani». Questa volta viaggiavano in pool, ma non è servito lo stesso. Era il 5 marzo del 1991, «alle ore 15», se ricordo bene i racconti che ogni tanto ha fatto Bianchi, e furono fermati da una colonna della seconda divisione di fanteria irachena alle porte di Bassora. «Con la Toyota avevamo fatto 50 km oltre il confine, senza trovare intoppi. La nostra corsa finì a Zubair, quando una colonna di militari iracheni sbarrò loro la strada. Ci fecero consegnare quello che avevamo. Ci. tenevano in disparte isolati. Poi ci portarono a Bassora. E da lì ancora in un altro posto e in un'altra prigione, forse una caserma». All'inizio, non furono trattati molto bene. «Mi ricordo un soldato iracheno che ci faceva il segno con le dita sul collo: "taglieremo la gola a tutti voi". Faceva freddo, ma ci prendevano in giro. Un tenente della Guardia Repubblicana sfotteva quelli che gli chiedevano una coperta: "Tremate? Ma io sto sudando". Poi però si intenerì per Gabriella Simoni. Si sfilò il giubbotto e glielo appoggiò sulle spalle. Un altro tenente aveva cominciato gentilmente, ci aveva detto: "Sono armeno, di religione cristiana". Ma appena uno di noi aveva fatto per parlargli, era diventato duro: "Tu chiudi il becco. Voi non dovete parlarci". Per molti soldati eravamo spie, non credevano che fossimo giomalisti. Ci subissavano di domande: "Avete seguito tutta la guerra? E dove? In Arabia Saudita? Come siete riusciti ad anivare fino a Bassora? Nessuno vi ha fermato? E' impossibile". Il fatto è che molti dei giomalisti, per lo più fotografi, erano ancora travestiti da soldati dell'operazione «Tempesta nel deserto». Era il trucco indispensabile per passare i posti di blocco degli americani in Arabia Saudita e in Kuwait. «Con le tute da combattimento ancora indosso, bisognava sventolare tutti i tesserini del mondo per dimostrare ai militari che non li stavamo gabellando. Se si convincevano che eravamo delle spie poteva essere la fine». La prigionia fu soprattutto interminabili giornate di attesa, ore di inattività forzata. Ricordo che una volta mi raccontò che s'erano fatti una palla con degli stracci e che ci giocavano a calcio. Cerano due francesi, Flangois Carnè e Frangois London, che giocavano a bocce: «Avevano appoggiato un accendino su un sacco a pelo e cercavano di avvicinarsi il più possibile lanciando i pomelli sferici dell'attaccapanni». Lui, Lorenzo, si lamentava che era molto spesso solo. Gabriella Simoni e Giovanni Porzio cominciarono a innamorarsi lì. Sono diventati marito e moglie. Poco per volta, nei racconti di Bianchi, il clima e alcuni giomalisti cominciarono a fraternizzare con i loro carcerieri. «Le bocce dei due Frangois avevano rotto il ghiaccio. Diversi militari avevano una gran voglia di parlare con noi. Si abbandonarono a sfoghi amari, tracciarono bilanci in rosso nei quali il regime veniva messo duramente sotto accusa anche da uomini di grado elevato. Un colonnello aitante e giovanile ci rivelò di essere un arbitro intemazionale. Era la mia vecchia passione, ci diceva, nell'esercito ci sono finito per caso. Volevo fare il calciatore. Sognavo di mettere da parte qualche soldo e di trasferirmi in Canada». Molti ufficiali si sfogarono e parlarono male del regime di Saddam. Un colonnello dell'aviazione fece avere a tutti loro gli approvvigionamenti alimentari e l'acqua. La sete era il problema principale. L'acqua finiva spesso. A volte gli portavano una tanica piena di liquido giallastro e loro storcevano la bocca. Qualcuno l'assaggiava e diceva che sapeva di sabbia. Un altro spiegò che il colonnello per riuscire a fargli avere quella tanica piena aveva dovuto Ètigare con i soldati: «Non facciamo i principi del pisello. Non è questa la situazione». Il colonnello si chiamava Shamil. Era gentilissimo, e sotto la tuta blu indossava un paio di stivaletti di cuoio nero. «Molti prigionieri avevano finito le sigarette. Lui promise che avrebbe mandato qualcuno a Bassora per fare rifornimento». Le sigarette, però, non arrivarono. E la tanica restò quasi piena. Il tifo faceva più paura, e non c'era buona volontà che bastasse. Con il buio, le ombre giocavano sui muri e flebili luci illuminavamo solo i volti. I prigionieri e i militari. Un fotografo di Time, Toni Suau, intonò una canzone dei Beatles, "Yesterday". Shami versava del te bollente nei fondi di bottiglie di plastica tagliate a metà. «La voce di Tony diventò un coro. Fecero "Let it he" e poi Bob Dylan. E i soldati iracheni cantarono una canzone egiziana». li liberarono il 9 marzo. Quei giorni, Bianchi li ricorda sempre come tutta una guerra. R AN ARABIA SAUDITA N ARABIA SAUDITA N mmmm Profughi e colonne militari: queste le strade intorno a Bassora dove sono stati fermati i giornalisti «Uno dei soldati della Guardia Repubblicana ci fece il segno con le dita sul collo: vi taglieremo la testa»