«A Guantanamo da innocente, ma ci sono stato bene»

«A Guantanamo da innocente, ma ci sono stato bene» UN GIOVANE TASSISTA ACCUSATO DI ESSERE UN TALEBANO: SOLO CHI SI RIBELLAVA.VENIVA PUNITO. AVEVO PURE UN VIDEOGAME «A Guantanamo da innocente, ma ci sono stato bene» Uno dei presunti terroristi, liberato dopo sedici mesi per assenza di prove, smentisce Amnesty International Jacopo lacoboni È mattina, a Guantanamo Bay. A Washington gli strateghi americani studiano come cingere d'assedio la roccaforte di Saddam Hussein, nell'ala B del complesso carcerario cubano, dove sono detenuti 660 presunti talebani in attesa di giudizio, suona una porta blindata. I secondini avvicinano un uomo rinchiuso, si chiama Sir^juddin, anni 24, professione tassista e, fino a un istante prima, presunto talebano. Gli riconsegnano abiti civili. Gli intimano sbrigativi: «Vestiti, sei libero». Quell uomo li ascolta, si veste, esce dalla prigione. Ognuno, a questo punto, si immaginerebbe una scena tipo «Fuga di Mezzanotte», grande corsa dell'innocente finaba-nte libero con saltello conclusivo fino alla prima svolta della strada (in fondo a destra), per fuggù-e da un incubo che molti giornali americani ed europei hanno defi¬ nito semplicemente «detenzione fuorilegge». E invece. Invece Sirajuddin indossa gli abiti fomiti dall'amministrazione militare (tuta e un paio di sneakers assolutamente yankee) e un modo di pensare quasi occidentale per dire quello che non t'aspetti: «Lì dentro tutto sommato mi hanno trattato bene». Prego? «Sì, mi hanno trattato bene». Lo confida alla commissione afghana che lo interroga per tre giorni dopo il rilascio, lo ripete oggi al Boston Globe, non un quotidiano della destra americana; che naturalmente cj titola. Diamine, che cosa passa per la testa di Sirajuddin, se è vero che le sue parole correggono quanto lamentato fino a ieri da ogni organizzazione umanitaria che si conosca? Human Rights Watch: «E' uno scandalo ammassare uomini in gabbie di 1,8 metri per 2,4 con reticolato come parete». Amnesty: «Non si possono tenere esseri umani incappuccia¬ ti per giorni». Sirajuddin: «Lì dentro tutto sommato mi hanno trattato bene». Il suo amico, anonimo, aggiunge: «Se proprio devo finire in prigione, voglio che sia a Guantanamo piuttosto che a Kabul». Chi ha ragione, chi torto? Tra la fine della scorsa settimana e la metà di questa, da Guantanamo sono usciti diciotto uomini: si pensava fossero talebani, poi le accuse contro di loro sono cadute. Sono stati liberati dopo sedici mesi (quindi con notevole ritardo) e rispediti a casa. Gli Stati Uniti ammettono: non abbiamo prove contro di loro. La sorpresa è che nessuno dei diciotto liberati ha denunciato torture o coercizioni subite durante gli interrogatori. Non lo hanno fatto appena usciti dalle gabbie, quando la reticenza sarebbe stata comprensibile per via della paura di esser rimessi dentro, non ne hanno parlato neanche a casa, a Kabul: quando ormai erano al sicuro. Per capire perché, sentite che raccontano Sirajuddin e i suoi compagni. Lui, nei diciotto, è un caso esemplare e un po' il capofila che ha accettato di dire il proprio nome. Racconta: se protestavi, «magari perché ti avevano sequestrato il Corano», oppure se rispondevi in malo modo a un marine, erano guai: nessun rispetto della dignità umana perché, come hanno spiegato poi gli strateghi di Washington, «a quelli di Guantanamo non è riconosciuto lo status di prigioniero di guerra, sono combattenti fuorilegge e basta». Se invece di un combattente sei un tassista ventiquattrenne, che magari non c'entra niente con il mullah Omar, e si segnala per «buona condotta»? «Se non ti ribellavi, e non rispondevi in modo insolente, le guardie ti trattavano con rispetto». Poi, naturalmente, c'è chi, come Murtaza, 28 anni, della provincia meridionale di Helmand, lamenta: «Mi picchiavano e mi bendavano». Sirajuddin corregge: «A me e tanti altri è andata molto meglio». Specie se considerate com'era cominciata. Sirajuddin arriva a Guantanamo «terrorizzato». Poche ore prima lo aveva bloccato il signore della guerra Abdul Rashid Dostum, non proprio uno tenero. L'accusa è pesante: lo etichetta subito come «miliziano taliban», cioè come uomo d'armi. Letteralmente, lo vende agli americani. Complicato negare le accuse, per farlo ci vorranno sedici mesi: nei quali, confessa ora, gli saranno dati due pasti al giorno («uova la mattina, carne due volte al giomo»), gli verrà consentita una doccia quotidiana («se non ci lavavamo noi ci lavavano loro»), il lusso di un videogame per distrarsi ogni tanto, e «se proprio devo finire in prigione, vogho che sia a Guantanamo piuttosto che a Kabul». La base di Guantanamo Bay

Persone citate: Abdul Rashid Dostum, Saddam Hussein, Sirajuddin

Luoghi citati: Guantanamo, Kabul, Stati Uniti, Washington