«Dalla guerra una speranza per il popolo curdo»

«Dalla guerra una speranza per il popolo curdo» COME LA PICCOLA COMUNITÀ SEGUE LE DRAMMATICHE FASI DEL CONFLITTO «Dalla guerra una speranza per il popolo curdo» Un poeta in esilio: mi sento come voi italiani ai tempi dell'arrivo degli alleati Giovanna Favro «Gridate fanciulli/ dal cuore della nostra Patria/ martoriata/ perché siano divelte le sbarre /dalle fontane e che le polle/ sprizzino in libertà...Distruggete le fortezze/dell'invasore/ e soltanto allora/ si potrà cantare/ Balera». Sono versi di un uòmo che appartiene alla piccola comunità torinese dei curdi iracheni. Uomini e donne che davanti alle immagini delle truppe angolamericane in marcia su Bagdad vivono emozioni violentissime: hanno imparato a prezzo di anni di devastazioni e d'orrore a detestare la guerra e la violenza, ma coltivano in cuore una nuova speranza di liberazione della loro terra insanguinata dalle stragi. Quarant'anni, da 22 lontano dall'Iraq, ha due bimbi e una moglie italiana, e porta lo stesso nome del numero due di Saddam, Tarik Aziz. Ha conosciuto fino in fondo la follia omicida dei militari del regime, che gli hanno assassinato un fratello e una sorella. «Mio fratello Faruk l'hanno impiccato tredici anni fa. Aveva 24 anni. Come me aveva rifiutato il partito Baath aderendo alle organizzazioni, dichiarate anticostituzionah, che chiedono l'indipendenza del nostro popolo. Tutti e due ci siamo trovati davanti una scelta: diventare partigiani, o fuggire. Io sono venuto in Italia a studiare, lui è rimasto in Iraq». «E' stato torturato per otto mesi, prima d'essere ucciso come traditore della patria. Mio padre ha speso i suoi risparmi per riavere il suo corpo e per poterlo incontrare in una cella infernale, per un'ora, prima dell'esecuzione. Era talmente tramortito dalle torture che quasi non l'ha riconosciuto». «Con altri genitori di condannati, i militari hanno fatto passare mio padre in un cunicolo, nelle prigioni. A tutti hanno mostrato un cestino in cui c'erano gli occhi strappati ad altri esponenti della resistenza curda. Sopra c'era scritto che quella era la sorte destinata ai traditori». Nato a Karanau, vicino alla città petrolifera di Kirkuk, ha perso anche la sorella, Miriam, neir89, «Trucidata in uno dei 4 mila villaggi rasi al suolo dai militari del regime. Psicopatici che sterminano gli uomini con il gas e le armi chimiche, e bruciano le case. Lei aveva vent'anni. S'era attardata, mentre tulli scappavano all'arrivo degh sgherri, per aiutare una donna che stava partorendo. In Europa sarebbe diventata un simbolo delle donne e delle vittime della pulizia etnica». Avendo un figlio condannato come oppositore del regime, «La casa di mio padre e mia madre è stata sequestrata. I miei genitori e gli altri fratelli vivono ridotti in miseria nella zona-cuscinetto al confine con la Turchia». Legge una poesia che ha scritto per la madre: «Mi arrampicherò/ su una cresta malinconica,/ raggiungerò la tua camera buia./ Sulla spalliera del tuo letto/ distenderò silenziosamente/ i miei versi:/ trasformati in candela/ li accenderò per te». A lungo membro dell'Unione patriottica del kurdistan in Italia, racconta l'ansia e le contraddizioni di chi vede vicina la fine di un aguzzino «che ha sterminato la mia gente e ridotto il mio popolo alla fame, anche se la nostra è terra fertile e ricca d'acqua, ed essendo la provincia più ricca dii petrolio aumenta l'intera economia del paese». «Mi sento come credo foste voi italiani davanti alle truppe alleate: era guerra, sì, e nessuno più di noi curdi desidera la pace, dopo 80 anni di violenza. Ma era per voi, come per noi oggi, anche la liberazione dall'oppressione e dalla dittatura». Anni senza poter rivedere i suoi cari («Se fossi tornato avrei fatto la fine di mio fratello»), e a scrivere versi dedicati ad esempio ad Halabja, «Una cittadina di 5 mila persone uccise in venti minuti con le armi chimiche». Anni a sognare «Di poter avere anche noi libri e riviste, la libertà d'insegnamento, la nostra lingua studiata nelle scuole. Do: v'era l'Onu, dov'erano i pacifisti che oggi sfilano nelle piazze di tutto il mondo, quando noi morivamo? Siamo 36 milioni, dispersi tra quattro Stati, il Kuwait non ha un decimo della nostra popolazione. Da 80 anni ci massacrano, ma noi non siamo mai diventati terroristi, non abbiamo mai ucciso nessuno al di fuori della nostra terra che cercavamo di difendere. Negli anni, tante volle ci sono stati promessi diritti che nessuno, poi, ci ha riconosciuto. Tante volte che quasi non osiamo più sperare. Neppure gli americani hanno mantenuto le promesse, in passato». Mostra gli articoli che ha pubblicato net tempo sulla questione curda: «Qualunque sarà il governo che verrà dopo Saddam, noi vogliamo che il mondo non chiuda più gli occhi davanti a noi. Chiediamo che si costituisca uno stato federale e democratico, con più partili e un governo centrale a Bagdad. Con i nostri rappresentanti a governare la nostra terra, che devono aver voce nel governo di Bagdad. Chiediamo di avere un rappresentante all'Orni, e che libere elezioni possano avvenire dopo la guerra. Troppo sangue e troppe lacrime abbiamo versato». Si legge nei suoi testi: «Siamo Kurdi/ figli dei monti». «Cancello il dolore/ dalle labbra dei bambini/ e dipingo col mio sangue/ sul petto del mondo. Il Kurdistan è libero/ e traccio i suoi confini». «Nessuno più di noi desidera la pace dopo 80 anni e la fine di una dittatura che ha fatto migliaia di vittime» Tarik Aziz, 40 anni: il regime di Saddam gli ha assassinato un fratello e una sorella

Persone citate: Faruk, Giovanna Favro, Kurdi, Tarik Aziz