Bush sr. difende George «Finisca il mio lavoro»

Bush sr. difende George «Finisca il mio lavoro» LA GUERRA DEL QOLFO FU INTERROTTA PER RISPETTARE IL MANDATO DELL'ONU CHE PREVEDEVA SOLO LA LIBERAZIONE DEL KUWAIT Bush sr. difende George «Finisca il mio lavoro» I falchi repubblicani hanno sempre considerato un errore la fine anticipata del conflitto nel '91. «Ora rimedieremo» personaggi corrispondente da NEW YORK DODICI anni fa Jeff Zimmerman partiva per l'operazione «Desert Storm» salutato dal figlio Hans di fronte all'hangar del 1109" squadrone elicotteristi di base a Gronton, nel Connecticut. A fine febbraio la scena si è ripetuta al contrario, con Hans in divisa, oggi ventottenne, che ha abbracciato il padre dicendogli: «Non ti preoccupare, questa volta finiremo il lavoro». La guerra interrotta nel febbraio 1991 da George Bush padre mentre le truppe erano lanciate verso Baghdad ha creato in una generazione di americani il mito della «vittoria mancata» che George Bush figlio si propone ora di cancellare rovesciando Saddam Hussein. L'ombra che pesa su Bush padre è l'ordine impartito, alla centesima ora dell'offensiva di terra, al generale Norman Schwarzkopf affinché fermasse i suoi uomini «per rispettare il mandato dell'Onu», che prevedeva la liberazione del Kuwait e non un cambio di regime, del quale si sarebbero dovuti occupare gli iracheni. Quella decisione fu un perfetto esempio di Realpolitik. Ma le cose andarono diversamente. Grazie alla Guardia Repubblicana, salvata cjalla distruzione, Saddam represse nel sangue la rivolta degli sciiti e annientò gli oppositori, riuscendo a restare al potere. Dodici anni di ispezioni Onu non sono servite a far consegnare all'Iraq le armi di distruzione di massa delle quali si scoprì l'esistenza dopo «Desert Storm». A Bush padre la liberazione del Kuwait non bastò ad essere rieletto nel 1992 e del frutto più importante della sua Realpolitik in Medio Oriente - la conferenza di pace di Madrid del 1991 che portò agli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993 - oggi resta ben poco. Non solo. Dodici anni dopo quella vittoria mancata l'area del Golfo è instabile come mai: ha esportato i terroristi di Al Oaeda che hanno lanciato aereimissile contro Washington e New York l'il settembre 2001. «L'errore di Bush nel 1991 fu quello di non esercitare una leadership politica scegliendo di lasciar applicare ai militari le regole concordate all'Onu che prevedevano la fine della guerra dopo la liberazione del Kuwait ha scritto Eliot Cohen, docente di strategia alla Johns Hopkins University, nel suo libro «Supreme Command» nel quale suggerisce a Bush figho come guidare il paese - mentre invece un Comandante Supremo deve essere in grado di prendere la decisione cruciale quando si manifesta l'imprevisto, imponendola ai militari». Ovvero: lo sbaglio fu di non capire che la gueira aveva modificato lo scenario e che non chiudere la partita con Saddam avrebbe comportato costi molto alti. I disastri pohtici e strategici seguiti alla decisione di non finire la guerra hanno portato a emergere dentro il partito repubbhcano quelle voci dell'ex amministrazione Bush 1 che non avevano condiviso la scelta di lasciare Saddam al potere: primo fra tutti l'ex ministro della Difesa, Dick Cheney, ma anche l'ex membro del Consiglio della Sicurezza, Condoleezza Rice, e gli ex alti funzionari del Pentagono Paul Wolfowitz, Douglas Feith e Ri- chard Perle assieme a Donald Rumsfeld, l'ex ministro della Difesa di Ford. Durante gli anni del democratico Bill Clinton questa pattuglia di repubblicani antiSaddam ha guadagnato sostegni criticando costantemente la scelta della Casa Bianca di limitarsi a contenere Saddam. L'anno più critico fu il 1996, quando Saddam con un blitz a sorpresa riuscì ad invadere le regioni curde del Nord. «Se allora Clinton avesse ordinato all'aviazione di reagire e proteggere i curdi oggi Saddam non sarebbe più a Baghdad», suole ripetere Perle. Anno dopo anno i rimorsi sulla vittoria mancata da Bush padre nel 1991 si sono sommati alle accuse a Clinton di inefficacia e di scarso sostegno all'opposizione. Saddam è diventato negli Anni Novanta oggetto di accuse reciproche fra leader repubblicani e democratici al Congresso, quasi un contenzioso di politica intema. Lee Hamilton, direttore deir«Intemational Center for ScWars» del Woodrow Wilson Inbtitute, spiegò questo fenomeno parlando di «un'opera incompiuta che ha prodotto scelte politiche contraddittorie come contenerlo, applicare le sanzioni dell'Onu e tentare di- rovesciarlo». Il risultato fu che nella campagna presidenziale del 2000 entrambi i candidati fecero riferimento alla necessità di cacciare Saddam addossando all'avversario la responsabUità dello status quo. Varcata la soglia della Casa Bianca il giovane Bush ha avuto sin dall'inizio nella sua agenda la resa dei conti con il Raiss: per finire ciò che il padre aveva iniziato ma anche per emanciparsi dalla figura pa- ' terna. E' stato l'inseparabile consigliere politico Karl Rove a convincere Bush che se è riuscito a vindere nel 2000 sulle ah del sostegno della dinastia repubblicana a cui appartiene, nel 2004 potrà puntare alla rielezione solo, se riuscirà a dimostrare agli elettori che ha saputo dare un'impronta propria alla presidenza. Ma arrivare alla guerra non è stato un percorso indolore in casa repubbUcana: se è vero che Bush senior non si è mai espresso in pubbhco contro le scelte del figho, alcuni dei suoi più stretti collaboratori non hanno invece lesinato critiche da quando, lo scorso agosto, la Casa Bianca iniziò a progettare il rovesciamento di Saddam nell'ambito della guerra al terrorismo iniziata dopo l'I 1 settembre. Il vicepresidente Dick Cheney ha definito a più riprese «assurde» le obiezioni avanzate. «Ciò che è avvenuto è che nel Bush II i reaganiani sono tornati a farsi sentire - spiega Ivo Daalder, pohtologo della Brookings Institution - e anzi sono al comando, ma il confronto a cui abbiamo assistito non è fra Bush I e Bush II bensì fra Bush I e Reagan». Inquesto duello fra repubblicani pragmatici e repubblicani idealisti i mediatori sono stati due Segretari di Stato: Henry Kissinger e Colin Powell. L'interrogativo che resta da sciogliere è se padre e figho si sono mai personalmente scontrati sulla guerra o se invece abbiano condiviso la scelta di continuare la campa¬ gna interrotta nel febbraio del 1991 per allontanare dalla dinastia l'ombra della vittoria a metà. ((Avremmo bisogno di una terapia di famiglia per sapere che cosa è avvenuto fra di loro», ha scritto Maureen Dowd sul «New York Times». Di certo c'è che da quando è iniziata l'ultima fase della crisi irachena Bush padre non ha fatto mancare la sua voce a fianco del figho, esprimendosi a favore della dottrina della guerra preventiva con lo stesso linguaggio di Kissinger: «Se abbiamo imparato qualcosa dall'I 1 settembre è che abbiamo l'obbligo di proteggere la nostra gente e gh altri popoh dal terrore». Con l'inizio delle ostilità Bush padre è sceso apertamente in campo a fianco del figho. In un'intervista a«Newsweek» lo difende a spada tratta dalle critiche: «Non si può paragonare questa crisi a quella del 1991, anche allora però i francesi fecero difficoltà, quando tutto sarà finito verremo a sapere cose interessanti sui francesi, chi lo accusa di non tener in conto l'opinione degh altri sbaglia, alla fine un presidente deve fare ciò che ritiene giusto». C'è anche l'ammissione del senso di colpa per non chiuso la partita nel 1991: «Sì, questo mi irrita ma allora la missione era solo liberare il Kuwait». 1 due presidenti George Bush padre (a sinistra) e figlio si sono trovati a fronteggiare lo stesso nemico, Saddam Hussein, a dodici anni di distanza. Questa volta Bushjr. intende chiudete la partita con il nemico storico, quasi una lotta fra dinastie