Quel vento di libertà chiamato America

Quel vento di libertà chiamato America Quel vento di libertà chiamato America Alessandro Rosa DISCHI con profumo di libertà, per uscire dalle ripetizioni di uno stile. Dischi con licenza di spaziare tra i generi, le passioni musicali, il desiderio e di sperimentare e giocare con i suoni. Un unico riferimento, l'America. Non dentro la tradizione, ma con le tradizioni che in quel grande porto sono state accolte. C'è ad esempio Ben Harper. Il suo ultimo «Diamonds on the inside» (Virgin, 1 Cd) si presta ad essere definito come l'opera di un giovane che fa musica di vecchi, una serie di esercizi di stile che permettono all'autore di coltivare il proprio narcisismo, ammirandosi nei riflessi dei giganti del passato. Il chitanrista losangelino è un furetto alla Kravitz, ma fin dagli inizi ha saputo infondere alla sua opera calore e spiritualità, doti oggi rare. Legato al blues acustico, la sua ispirazione a volte si perde in chiacchere strumentali. Non questa volta. Spazia libero tra i diversi generi (dal folk al ftmk), mettendo sempre l'ascoltatore a proprio agio, regalandogli la sensazione di rinnovata «verginità» di quei suoni. Si parte dal reggae di «With my own two hands» (con Al Anderson, vecchio chitarrista dei Wailers di Marley), si prosegue col rock anche intenso (la dylaniana «Temporary remedy» e «Si high so low»), ballate sentimentali, momenti mistici. In 14 lunghi capitoli, Harper ha in pratica riassunto i suoi precedenti lavori e i riferimenti decisivi per la sua maturazione musicale. Un album intenso, compatto e omogeneo, alla cui riuscita ha contribuito la veste medita di produttore dello stesso Harper. Chi da tempo osserva e suona l'immaginario americano sono i Calexico. Se «The black light» (1998) era un omaggio alla nostalgica «trilogia della frontiera» dello scrittore Cormac McCarthy, oggi «Feast of wire» (Labels, 1 Cd) descrive la scomparsa di quel mondo, imputandola all'invadenza tecnologica. Parere attendibile visto che i Calexico la frontiera la sentono perchè la abitano (loro base è Tucson, Arizona). La loro musica è panoramica, generosa. Ha ancora il marchio mariachi, ma per questo disco si è aggiunto il jazz - con riferimento alle orchestrazioni di Gii Evans e con citazioni di CharUe Mingus (vissuto a Tucson] la musica sudamericana, iì pop dei Nord, momenti dub e comunque atmosfere da canzone d'autore. Sedici i brani («Black heart» il- momento migliore) tra cui ((Across the wire» e «Woven bird» ispirate da Luis Urrea, poeta e romanziere di Tijuana. Non sono musicisti da unico stile John Convertine e Joey Bums. Questa volta sembra che, denunciandone un dissolvimento, abbiano voluto recuperare e ricreare una realtà con la nozione di crogiolo musicale. Altra piacevole realtà è «Tim McGraw and The Dancehall Doctors» (Curb/ Warner, 1 Cd). Come Waylong Jennings, Willie Nelson, e Merle Haggard prima di lui, questo campione del country cerca di al aitare i confini del genere con otto fidi scudieri. E lo fa spingendosi fino a rifare «Tiny dancer» di Elton John. Niente sapori dolciastri. McGraw ha qui confezionato una musica da viaggio. Ottimista, riflessiva, ricca di argomenti. Può darsi che, contaminata da una serie di attuaM tendenze pop (alla Faith Hill, sua moglie), scontenti chi ama il country e non abbia appeal fra gli altri. Ci sono sapori piccanti nella bluesy «That's why god made Mexico», c'è l'alternativa country in «Who are they» e southern-Rock in «Realgood man». Chiara l'intenzione di voler rimanere attaccato alla tradizione country. Ci riesce bene, ma non al livello di un album come il vecchio «Everywhere».

Luoghi citati: America, Arizona, Tucson