Il duro rituale di «sdisOrè» dove il canto non è cantabile di Masolino D'amico

Il duro rituale di «sdisOrè» dove il canto non è cantabile IN SCENA A MILANO Il duro rituale di «sdisOrè» dove il canto non è cantabile Masolino d'Amico MILANO APRENDO le celebrazioni testoriane, quelli dell'Elfo non si sono nascosti dietro un dito: il tardo sdisOrè costituisce infatti, nella lunga ricerca dell'inquieto lombardo, uno degli approdi più intransigenti. Scritto nel 1991, fa parte della seconda delle «branciatrilogie» scritte per il solista Franco Branciaroli. Sono partiture virtuosistiche che fanno pensare a certe del compositore Luciano Berlo per Cathy Berberian, dove l'autore spinge l'interprete a cantare il non cantabile. Qui si declama l'ineffabile. Al centro di «sdisOrè» c'è una non lingua, ossia una lingua inventata, difficile da porgere almeno quanto risulta ostica all'ascolto. Ora, nel far recitare un idioma desueto Testori non è il solo; dopo di lui, Ruggero Cappuccio ha scritto testi in uno pseudonapoletano molto arcaico, e Franco Scaldati in un palermitano altrettanto poco familiare. Come mai, essendo una caratteristica vitale del teatro proprio il sintonizzarsi con le persone presenti - l'entrare in comunicazione diretta con loro - c'è chi sente il bisogno invece di porre un filtro; di mettere un ostacolo? Be', persino Peter Brook, che rimette in prova i suoi spettacoli quando ha la sensazione che una sola battuta non «arrivi», commissionò una volta al poeta Ted Hughes un testo, Orghost, non un solo vocabolo del quale compariva sul dizionario. Dietro queste sfide c'è l'insofferenza per la piattezza della convenzione; c'è il desiderio di scuotere lo spettatore e costringerlo all'attenzione ricordandogli che l'arte non è sempre facile e rassicurante. Tuttavia tra Testori e gli esempi ricordati c'è una differenza. Laddove i copioni di Cappuccio, Scaldati e Ted Hughes hanno, per quanto poco intelligibili, ima loro plausibilità sonora (i parlanti agiscono all'interno di un sistema: ritmi, timbri e sonorità sono convincenti, e c'è un accento, magari regionale, che amalgama), quella di un testo come sdisOrè è veramente una non-lingua. Ossia, ci troviamo davanti a ima fredda giustapposizione di parole di itahano storpiato - «sanguo» invece di «sangue», «sublima» invece di «sublime», ecc., ecc. - ovvero di latino orecchiato («vendicta») - ovvero di altre lingue o dialetti, a partire dal sottotitolo in inglese maccheronico, «Brianza's tragedy» - senza una coerenza avvertibile. Chi le pronuncia è chiamato, insomma, a uno straordinario e in definitiva sterile tour de force: ieri Branciaroli, oggi il meno folle ma pur splendidamente attrezzato Ferdinando Bruni. Il quale esce in ibrida tenuta da clown redingote, scarponi, un roseo vestito muliebre sopra i pantaloni, cranio rasato, faccia spalmata di biacca, e lacrimoni rosso sangue più da Edipo che da Oreste - e sporadicamente accompagnato da una fisarmonica, consegna con bella varietà di intonazioni e di gesti tutto l'incomprensibile dettato per 80'. Sul palcoscenico dell'Elfo è allestito un teatrino tipo baraccone, con vivaci siparietti dipinti che lo stesso Bruni apre e chiude; questo, e anche certi momenti della recitazione, per infondere un po' di giocosità in un copione che dà piuttosto sul torvo. Tema, la vendetta consumata da Oreste sulla madre: «porca reghina, porca, strasfintas et, comò schiò non suffichesses, crisoelefantinas». E' un rituale sardonico, celebrato con buon piglio (regia di Francesco Frangia) tra il compunto silenzio degli astanti. Molti applausi, comunque, alla fine.

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