RAGIONE IN CRISI

RAGIONE IN CRISI RAGIONE IN CRISI Eiena Loewenthal NELLA Bibbia non esiste la parola «religione»: il lessico che s'articola fra cielo e terra risponde con ricchezza alla natura continuamente cangiante del rapporto fra il Creatore ed il creato. Non c'è parola, nell'ebraico del testo sacro, capace di riassumere la dinamica viva fra Dio e gli uomini in quel tempo in cui fra gli uni e l'Altro si parlava, si taceva, si ascoltava, si benediceva e ci s'infuriava vicendevolmente: il termine biblico più vicino al concetto di religione quale si deduce dalla seppure incerta etimologia che la fa risalire al latino «religare», cioè «raccogliere insieme», «vincolare», è «berit» con cui si indica il patto stretto fra l'Eterno e il patriarca Abramo, siglato nel sangue e in un reciproco impegno di presenza dentro la storia. Ma non è questo un patto di fede, piuttosto di opere - tanto in alto quanto in basso. Dio è invece riconosciuto dall'uomo non tanto per convinzione quanto in virtù di un'intuizione, come per il fatto stesso di essere stato creato a sua immagine. La Sua presenza nel mondo è riassunta da due parole molto simili fra loro, nel suono e nelle sfumature di significato: «amen», che è radice di «stabilità», e «emet» che indica la «verità» - e, grazie a una mirabile simmetria metafìsica della lingua, è costruita con tre consonanti che sono la prima, quella di mezzo e l'ultima dell'alfabeto ebraico, come per contenere simbolicamente tutto. Così come si racconta nel tessuto della storia sacra, la fede non è semplicemente una parte della vita, ma un'esperienza per così dire naturale, una sorta di sesto senso comune. Una forma di conoscenza: l'uomo sa che Dio esiste, per evidenza quotidiana. Diverso sembra essere il rapporto che lega oggi il credente con la sua divinità e con ciò che in terra la rappresenta: la religione è vista essa stessa come custode di una sapienza cui ci si rivolge armati dei propri dubbi, non più di quella verità condivisa che teneva legati insieme Dio e gli uomini nella Bibbia. I quali più che credere, conoscevano fermamente; mentre la fede di oggi sembra essere una socratica sottomissione alla propria ignoranza. Gò che spinge ad esempio milioni di persone ad ascoltare in muta reverenza le parole della Chiesa cattolica su questioni politiche e di varia attualità, è un vuoto non soltanto spirituale ma anche di conoscenza. La religione è considerata insomma più affidabile nell'indicare la strada in un tortuoso, indecifrabile presente. E' con questa antica competenza che deve misurarsi la cultura laica, dimostrandosi capace di dotare i propri valori di quella stabilità che è l'assunto dell'antica fede biblica, senza d'altro canto inseguire una verità che fuori dalla fede risulterebbe pura chimera. A questo arduo compito ben s'attagliano le parole di un saggio che, vecchie di qualche centinaia d'anni, suonano più o meno così: «non spetta a te completare l'opera, ma non puoi esimerti dal tentare». elena.loewenthal@lastampa.it

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