La GUERRA laggiù in fondo

La GUERRA laggiù in fondo UN DIARIO MENSILE DI LETTURE E RICORDI La GUERRA laggiù in fondo D EL poeta inglese Wystan Hugh Auden (1907-'73) posseggo soltanto una raccolta curata da lui stesso più di cinquant'anni fa in edizione Penguin, senza note di nessun genere. Non so quindi esattamente in che data abbia scritto la poesia «Embassy», ma dal contenuto si può pensare che risalga al 1938 o 1939, anni assai minacciosi. Aude n non usa mai parole «difficili» e proprio per questo è così difficile tradurlo adeguatamente; con le barocche volute di un poeta elisabettiano, per esempio, non sarebbe impossibile soluzioni altrettanto suggestive nella nostra lingua. Mentre Auden descrive quasi in prosa questa «ambasciata». C'è stata pioggia ma ora le nubi si sono sollevate lasciando intravedere lontane cime di monti. Ginevra? Probabilmente. Era la sede della Società delle Nazioni, l'Onu dell'epoca, e sebbene Auden non nomini il lago ce lo lascia però intravedere, immaginare. Così è sempre dei veri poeti: ogni parola ne nasconde altre dieci. Pochi tocchi gli bastano per mostrarci i vasti, curatissimi prati, le aiuole fiorite, un autista che legge (un giornale sportivo?) accanto a una limousine (nera o blu?), due giardinieri che guardano passeggiare in fitta conversazione i diplomatici d'alto rango, d'alta scuola, e calcolano il prezzo delle loro scarpe sommessamente lussuose. Sembra, dice il poeta, un idillico quadretto di vita privata. Ma molto lontano (far off), nonostante le migliori intenzioni dei forbiti negoziatori, le armate stanno in attesa di un verbal errar, un errore verbale, pronte con tutti i loro strumenti di morte. La chiusura è un'esplosione stupenda, mi permetterei di dire. And from the issue of their charm depended, dagli esiti del loro charme; parola soffice, delicata, sospesa incongruamente sull'abisso: e vediamo i nobili baffetti, le labbra appena socchiuse, i gesti misurati, sentiamo gli accenti impeccabili, le insinuanti argomentazioni su e giù per quei perfetti prati all'inglese. Ma che cos'è che dipende da tutto questo charme? A land laid waste, with ali its young men slain/Its women weeping, and its towns in terror. Cioè, molto piattamente: una terra devastata con tutti i suoi ragazzi sterminati, le sue donne in pianto e le sue città nel terrore. Quattordici versi in tutto. Non so se Auden fosse un pacifista, nel 1939. Non credo. In ogni modo andò in America giusto in tempo e lì rimase fino al 1945. MATE Leggo infine (ce l'ho lì da mesi) Don Segando Sombra, un romanzo argentino ( 1926) di Ricardo Gùiraldes, pubblicato da Adelphi. E' una storia di iniziazione: un ragazzino ammira i gauchos, riesce a intrufolarsi nel loro mondo, fa la loro vita sotto la protezione del mitico don Segundo Sombra, impara i fondamenti di quel duro mestiere, che è poi lo stesso dei cowboys nordamericani. Usare il lazo, guidare mandrie per centinaia di chilometri, battersi in duello con compagni aggressivi, bivaccare all'addiaccio, scommettere sui cavalli, rischiare incornate e disarcionamenti, mantenere un atteggia- mento stoico di fronte a qualsiasi pericolo. E bere il mate. Ma come sarà mai questo mate che ricorre ogni tre pagine. M'informo dall'unica persona di nazionalità argentina che conosca, la vedova di Italo Calvino, nata e cresciuta a Buenos Aires. Il suo nome è Esther, ma tutti la chiamano Chichita, un vezzeggiativo che le impose una tata messicana, mi pare, e che poi restò. E' una donna piccola, molto lentigginosa, rossa di capelli e con occhi di rara luminosità. Al collo o ai polsi o alle dita porta sempre qualche squisito gioiello vittoriano. Ebrea, poliglotta, lavorò a lungo per l'Unesco, vivendo faticosamente un po' dappertutto in Europa fino all'incontro con Italo. Insieme a lui si stabilì a Roma, poi a Parigi, poi di nuovo a Roma in un palazzo antico e complicato: tre piani, con tre terrazze lussureggianti affaccia- te sulla città. Ma d'estate è mia vicina nella pineta toscana in riva al mare dovè anch'io ho una casa semi-detached. La sua è invece una vera villa con un gran prato che digrada verso ima piscina incorniciata da ampie distese di cotto, un cotto specialissimo, cercato a lungo fra mille altri cotti e infine scelto e sistemato. Così è Chichita: esige sempre il meglio assoluto, dal ferro da stiro al cespuglio ornamentale, dalla sedia a sdraio al biscotto di Fortnum&Mason. Tipico vizio argentino, ammette lei stessa ridendo (ma intanto ti porge un cuscino da spiaggia che fabbricano in pochi esemplari soltanto a Lucca o sulla costa del Maine). Dopo la morte di Italo mi considerò per anni il suo migliore amico, cosa, si comprenderà, non poca lusinghiera. Lo ripeteva a destra e a sinistra. «E' il mio migliore amico», e io mi sentivo come una composta di frutta accessibile esclusivamente ai radi abitanti di una valle dell'Auvergne. Mi passava romanzi polizieschi e non, di cui è sempre fornitissima per via di un network sterminato di informatori intemazionali; e mi invitava a casa a vedere cassette di film che m'erano sfuggiti. Full Metal Jacket, per esempio, o un musical del 1934 in cui appariva in una parte minore Eddie Gantor, e di cui Borges aveva scritto una breve recensione. Una notte mi telefonò ironicamente disperata. Era sola, stava malissimo, non sapeva che fare. Corsi a casa sua e con un'amica comune convocata anche lei d'urgenza cominciammo a parlare del 118. Ma la cocciutaggine di Chichita è leggendaria. Si sentiva sempre peggio, non si capiva cosa stesse succedendo dentro di lei, ma l'idea dell'ambulanza, dell'ospedale di Grosseto, non la poteva mandar giù. A un elicottero che la portasse in una clinica di Losanna si sarebbe magari rassegnata, ma al 118 mai e poi mai. Dopo più di un'ora cedette, salì su un'ambulanza come sul cellulare dei carabinieri, l'accompagnammo a Grosseto, un letto in una stanza singola fu trovato e noi ce ne tornammo a casa che albeggiava. Non dico che cosa le fosse capitato non tanto per rispettare la sua privacy quanto perché non l'ho mai saputo, come non lo sa lei stessa né i medici che la curarono. Sia chiaro, Chichita non è affatto una malata immaginaria. E' piuttosto una superstite cronica, afflitta da disturbi gravissimi e inafferrabili, che sembrano ogni volta sul punto di portarsela via. Luminari francesi, argentini, italiani, svizzeri, addirittura il Cnr, se la rigirano da tutte le parti, fanno la loro diagnosi, una qualche cura viene avviata. Ma s'erano sbagliati, un simpatico internista ghanese appena laureato scopre la vera verità e i nostri cuori si riaprono momentaneamente alla speranza. Dopo quella notte del 118 Chichita prese a dire a destra e a sinistra che le avevo salvato la vita. A me in coscienza non pareva e anzi mi stupivo che una donna celebre per il suo umorismo sarcastico la mettesse in quei termini. «Guarda che dice che le hai salvato la vita», mi ripetevano. «Sarà», dicevo io, «ma insomma, ho poi solo fatto un numero di telefono». Dopo un paio d'anni e mezza dozzina di altre crisi misteriose, ci ritrovammo attorno alla piscina, tra gloriosi cespi di petunie. (Sono petunie, no? No, no, figurarsi, queste sono le cosiddette farfalle del Madagascar, il profumo si sente solo tra le undici e mezzogiorno). Le chiesi: «Ma perché continui a dire che ti ho salvato la vita?». «Perché è vero», disse lei. E con un sorriso smagliante aggiunse: «E non te lo potrò mai perdonare». Umorismo sarcastico. Quando la battuta le sale alla labbra non fa si può dire niente per trattenerla e le sue chiamiamole «relazioni pubbliche» tendono perciò al conflittuale. Tonfi clamorosi, strilli selvaggi, spruzzi da diluvio universale interrompevano intanto la nostra conversazione. Chichita aveva cominciato a invitare in piscina i miei due nipoti Matteo e Tommaso, la cui iniziale timidezza s'era sciolta al primo sguardo. «Cosa fate oggi?». «Andiamo da Chichita». Tommaso, il più piccolo e il più sfacciato dei due, le telefona quasi ogni giorno. «Possiamo venire?». Possono venire sempre. «Possiamo portare anche Filippo?». Possono portare anche Filippo, Alberto, Gala e il Ninno. Una banda di bambini che gioca dentro e fuori di una piscina offre uno spettacolo essenzialmente sacro. Fa pensare alla famosa comunione tra anima e corpo, alla prodigiosa vitalità, come dire, della vita, alla naturalezza totale che certi artisti e poeti riescono talvolta miracolosamente a riprodurre. Durante queste scene di esuberanza panica e parecchio rumorosa Chichita se ne sta imperturbabile sul cotto della piscina fumando le sue Gaulloises senza filtro, che tengono bellamente in gioco (lo sa lei, lo sappiamo tutti) il 118. Ogni tanto uno dei bambini la chiama: «Guarda Chichita!». E si produce in un tuffo spettacolare. Chichita guarda e si capisce benissimo che sta pensando pensieri leopardiani. Godetevi questi momenti, bambini, non sare¬ te mai più così felici. Ma non glielo dice, anche perché non è esattamente vero. Di lì a poco, uno degli ospiti comincia a uscire dall'acqua tutto tremolante, con la pelle d'oca e le labbra viola, si asciuga, se ne sta lì intontito per due minuti. E via via tutti vengono fuori in silenzio. Allora Chichita sale in cucina e tutto il branco la segue con fretta famelica. E' l'ora della merenda (o scorpacciata, come nelle fiabe di Italo), una cerimonia non troppo dissimile dalla distribuzione del cibo agli animali dello zoo. Crostate, torte, creme, cioccolato, formaggi (specialissimi) al forno, e tutte le bevande con e senza bollicine reperibili in un supermercato. Chichita fa le parti senza sbagliare di un grammo in più o in meno, ben sapendo quanto siano sensibili i bambini all'equità delle briciole; e io mi chiedo come la vedano, quegli allegri lupi che sembrano a digiuno da ima settimana. Una mamma? No. Una nonna, allora? Nemmeno. Una sorella maggiore, una zia? Chichita non «scende» al loro livello, né li tratta come piccoli adulti. Ha quel dono, ben più raro del suo cotto e dei suoi braccialetti vittoriani, di parlare d'istinto la loro lingua, sopprimendo ogni inferenza, ogni distanza. Diventa una di loro in tutto e per tutto e loro tranquillamente se l'annettono come si annettono i pini, il mare, la marmellata, la notte. Chichita è una di quelle cose che non si discutono, ci sono e basta. Quando la frotta se ne va le gridano: «Adiòsi». E lei ha inoltre insegnato a Tommaso uno scherzetto presarcastico della sua infanzia argentina. Si tratta di rispondere: «Cuando te veo me vien la tos». E quello, beato, glielo grida ancora mentre già pedala via sulla bicicletta, adiòs adiòs cuando te veo me vien la tos. L'anno scorso a Natale è arrivata una cartolina a Matteo e Tommaso, «i miei migliori amici», diceva. Io per indole non sono certo geloso, ma resta pur sempre il fatto del 118, dell'ambulanza, di quel cielo alabastrino di Grosseto, all'alba. Non per dire, ma non ero quello che le aveva salvato la vita? Quanto al mate, è un infuso eccitante che si fa con un'erba locale e serve a «tenersi su», come il caffè. E' tra l'asprigno e l'amarognolo, parrebbe, ma ci si può pure mettere lo zucchero. Il sapore non dev'essere un granché, altrimenti Chichita lo avrebbe già preparato per i suoi migliori amici in un apposito bollitore d'argento vittoriano scovato a Portobello Road. «CHICHITA CALVINO, ARGENTINA, EBREA, MIA VICINA DI CASA NELLA PINETA TOSCANA, DICE CHE UN GIORNO LE SALVAI LA VITA, MA IO FECI SOLO UNA TELEFONATA» DI Illustrazione di Dariush perTuttolibri A l Esther- Chichita Calvino, vedova dello scrittore di CARLO FRUTTERÒ .^V'l:;*;:':aH,;;v,':;^'::i(l;i,;:^m4iV.:;;^.:'.. '^ema