Mercanti, contadini, preti e donzelle nelle magiche rime dei cantambanchi

Mercanti, contadini, preti e donzelle nelle magiche rime dei cantambanchi Mercanti, contadini, preti e donzelle nelle magiche rime dei cantambanchi RECENSIONE Laura Mancinelll SIONE ra nelll la storia letteraria italiana, atta a soddisfare le esigenze dei critici più agguerriti e l'acribia degli addetti ai lavori? Posso suggerire ad una platea di lettori soltanto curiosi di abbandonarsi al piacere di scorrere le ottave di questi Cantari senza alcun pregiudizio? Non ne saranno delusi. Perché se da un lato essi colmano un vuoto nella storia letteraria italiana, quella popolare, destinata non alle corti, che in quei secoli in Italia andavano scomparendo, o almeno non solo ad esse, dall'altro testimoniano la sotterranea e sanguigna vitalità di una cultura che saziava gli appetiti dei frequentatori di fiere e mercati, e offrono ancor oggi un momento di spassosa evasione, un intervallo di fantasia svariante dall'eroismo all'erotismo, dalla polvere di tornei sempre iperbolici ai sapidi profumi delle osterie di campagna. Nella sua introduzione il De Robertis indaga le fonti di questi Cantari, che sono talvolta eccelse, come le Metamorfosi di Ovidio, o le canzoni di gesta d'Oltralpe o, venendo in territori nostrani, i romanzi in versi del Boccaccio, o lo stesso Decamerone, fino alla inafferrabile e infinita fiabistica popolare presente nelle figure di fate buone o cattive, oggetti magici e draghi. Si sofferma sulla costante forma in versi che contrappone questi Cantari alla prosa del Decamerone o dì Matteo Bandello, destinata a un pubblico raffinato, forse un «genere più elitario», in cui si provò anche Lorenzo il Magnifico (ma con scarso successo), per riconoscere infine che il verso rappresentava «un linguaggio più quotidiano». La realtà è che, malgrado le fonti più o meno eccelse, ma sempre lontane, questi Cantari erano patrimonio di cantori di piazza che non recitavano da un testo scritto ma a memoria, e della memoria l'ottava rima I Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento iniroduzionedi Domenico De Robertis, Salerno, pp. 1018, ^725 RECENLaMan» EDITORE Sa" lerno offre ai lettori in due Immm imponenti tomi della collana «I Novellieri Italiani» diretta da Enrico Malato un'autentica ghiottoneria: I Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento, con una vasta e dotta introduzione di Domenico De Robertis, premesse ai singoli componimenti e note esplicative di E. Benucci, F. Manetti e F. Zabagli, ai quali si deve anche un completo ed esauriente apparato critico. Posso consigliare al pubblico di non lasciarsi spaventare dal peso, in senso proprio, dei due volumi, della serietà dell'Editore e dei curatori nonché dal grande impegno e duro lavoro che deve essere costata loro quest'opera, pietra miliare nel- Sanno di casa, stalla e osteria, di erotismo e di eroismo i «Cantari novellistici» recitati a memoria in piazza tra Medioevo e Rinascimento UN MOMENTO DI SPASSOSA EVASIONE, UN INTERVALLO DI FANTASIA, OTTAVE CHE TESTIMONIANO LA SOTTERRANEA E SANGUIGNA VITALITÀ DELLA CULTURA POPOLARE Trento: particolare del ciclo di affreschi del Castello del Buonconsiglio era potente sussidio. Recitando modificavano, aggiungevano o toglievano secondo la rispondenza del pubblico: Così per esempio nel Cantare «Di Madonna Eléna», in un banchetto in cui si serve vino in coppe d'oro e d'argento, il cantastorie si sente in dovere di precisare che era «vemaccino». Evidentemente siamo in terra Toscana. Che è la regione madre, forse, di questo genere; ma non la sola, come prova l'alterazione di «usignolo» in «lusignacca» nel componimento omonimo. La libertà del cantastorie, o cantambanco, come è anche chiamato, viene fuori in mille modi, dalla accentuazione di particolari erotici alla frequenza di fate, maghi e orchi mangiacristiani come il Porco Troncascino del Gismirante, o ah'accumulo eccessivo di avventure come nel «Libro di Florio e Biancifiore», o alla esagerazione della stupidità dei mercanti ricchi contrapposta alla scaltrezza del povero cafone come nella «Istoria di Campriano contadino». E che dire di questo Masetto di Lamporecchio, che anche nel nome rivela la sua fonte, sorpreso a moltiplicare le sue prestazioni erotiche in modo iperbolico? O del «Trattato del prete colle monache» dove il religioso soddisfa un intero convento con grande compiacimento di tutte le recluse? L'importante è che mercanti e contadini si allontanino contenti dopo aver compensato il cantore con il loro obolo, e portino via con sé l'immagine di un mondo divertente, dove tutto finisce bene, la donzella inguaiata senza sua colpa venga salvata da un bellissimo cavaliere, i buoni siano sempre premiati e i malvagi finiscano male. Che importa se questa non è la realtà? Il cantambanco riesce a far ridere e sognare, e senza saperlo riempie un vuoto nella cultura del suo tempo, finché a un certo punto verrà qualcuno che metterà per iscritto questa tradizione orale e impedirà a tutte queste storie di andare perdute, sorte che è toccata certamente a molte altre che non hanno avuto la stessa fortuna. E quando non ripetono la trama dell'originale, come invece fa la storia di Griselda, tema molto amato nella narrativa medievale, o finiscono tragicamente come la vicenda di Guiscardo e Gismonda, rendono l'immagine di un mondo giusto, ideale e perfetto come la povera gente l'ha sempre desiderato. Se poi si condisce il tutto con elementi buffoneschi o piccanti fino all'oscenità, tanto meglio, perché acquista un sentore casalingo, di stalla e di osteria dove anche i poveracci si riconoscono e riescono a divertirsi come possono e come sanno.

Luoghi citati: Italia, Lamporecchio, Salerno, Toscana