«Siamo morti anche noi»

«Siamo morti anche noi» «Siamo morti anche noi» U na giovane famiglia spezzata dalla tragedia Giovanna Favro La nonna. I genitori. L'autista del bus. Quattro vite sconvolte da un istante confuso. L'istante in cui Michele è morto di schianto, e che d'allora s'espande e si moltiplica in migliaia di istanti gonfi di pianto. Da allora non è che rabbia e sgomento. Dolore e buio, per tutti gli adulti che gli erano intomo. Era così straziante, vederli tutti lì, in ospedale: i genitori di Michele Mohamed, i nonni, gli zii. Uno di qua, altri due abbracciati due passi più in là, a piangere. Una scena così triste, davanti allo strazio di un corpo così piccolo, che non è riuscito a trattenere il pianto nemmeno qualche infermiere. «Ho chiesto di che cosa avessero bisogno dice Ugo Zamburru, lo psichiatra del Giovarmi Bosco -. Ho spiegato che eravamo tutti a loro disposizione. L'unica cosa che mi hanno chiesto, nelle ore passate tra la sala medica e la camera mortuaria, è stato della carta per asciugarsi gli occhi». Carmine Conte, il papà, è di Rondissone, e all'anagrafe risulta ancora residente a Settimo, via Giacosa 2. Ha 24 anni, un lavoro in fabbrica. Una camicia a quadretti, le mani di chi conosce la fatica, la faccia rossa e sconvolta dal dolore e dalla rabbia. Fatima Chafi, la giovane mamma è una maschera di pianto. Fatiha Nadif, 43 anni, è la nonna. E' tutta vestita di nero. La gonna lunga, il velo nero delle donne marocchine, lo «hijab», a coprirle la fronte e i capelli. Ha gli occhi gonfi, alza le mani al cielo, e ripete delle parole in arabo che sono come una nenia lamentosa. La famiglia lascia l'ospedale in silenzio, salutata dai medici e dagli infermieri che stringono le mani e li accompagnano all'aperto lontano dai giornalisti: «Vogliamo star soli, siamo a pezzi, non vogliamo parlare con nessuno». Poco dopo sono tutti lì, in un negozio di via Bra trasformato in appartamento. C'è un piccolo ingresso buio, e una stanza mez- za vuota illuminata soltanto da una lampadina appesa a un filo elettrico. Sono tutti seduti su una fila di sedie e di panche con lo sguardo nel vuoto, le mani a tener su la testa. Ci sono i nonni. C'è lo zio Joseph, il fratello di Fatima, ancora tutto sporco di calce, che ha solo 17 anni ed è rimasto a casa quando tutti sono corsi in ospedale. E' stato l'ultimo a sapere che il bimbo era morto. Il padre di Michele grida sconvolto: «Andate via, mio fighe è morto». In ospedale avevano preparato una stanzetta per loro, perché potessero restare in pace, soli, finché volevano. Giulio Fornero, il commissario dell'Asl 4, ripete; «Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo». Anche Sebastiano C, l'autista del bus, ha ripetuto decine di volte più o meno quelle stesse parole. Ha 32 anni, è in servizio da pochi mesi al Gruppo Torinese Trasporti, ed è disperato. Finito al Gradenigo sotto choc, da quando ha saputo che quel bimbo è morto è circondato dai colleghi che gli esprimono sohdarietà. Vive solo, è venuto a Torino a lavorare dal Sud, e non si dà pace. «Tutto è successo in un istante», ripete. Scesi tutti i passeggeri, «ho richiuso le porte. Ho guardato negli specchietti retrovisori che mostrano i fianchi del bus, come sempre, e tutto era normale. Poi ho staccato gli occhi e ho diretto lo sguardo avanti, per ripartire. E' successo tutto nell'istante in cui ho girato gli occhi per partùe. Appena fatto lo spunto, dopo il primo colpo d'acceleratore, ho sentito gridare, e ho inchiodato». Michele era lì, probabilmente già morto. Cullato dalle braccia della nonna, mentre la gente intomo strillava. Il dramma del conducente ricoverato al Gradenigo in stato di choc «Ho sentito un urlo e ho subito inchiodato Ma era troppo tardi»

Persone citate: Carmine Conte, Fatiha, Fatima Chafi, Giovanna Favro, Giulio Fornero, Nadif, Sebastiano C, Ugo Zamburru

Luoghi citati: Rondissone, Torino