Barone, quattro culture e un rigattiere di Franca D'agostini

Barone, quattro culture e un rigattiere IL RAPPORTO TRA SCIENZA E FILOSOFIA NEL GRANDE PENSATORE ITALIANO APPENA SCOMPARSO Barone, quattro culture e un rigattiere Franca D'Agostini QUANDO in filosofia si parla di «realtà», diceva Kierkegaard, è come quando in una bottega di rigattiere si vede una vecchia insegna con su scritto «qui si lava»; sarebbe insensato portarci i propri panni a lavare. La parola «realtà» in filosofia - come l'insegna «qui si lava» dal rigattiere - non è messa lì per lo scopo per cui normalmente è usata: è il ricordo di una situazione in cui si era a contatto con le cose stesse, e in cui le parole servivano ad avere immediati incontri pratici con le cose; ma il contatto è ora solo in immagine, e di tale immagine possiamo fare un uso del tutto diverso (per esempio, potremmo comprare l'antica insegna e appenderla in salotto). Naturalmente, ciò non significa che la realtà non esiste, né significa che non si possa ragionare su come è fatta o potrebbe essere fatta (o su come si lavava o si lava oggi); significa invece che ogni appello filosofico «alle cose stesse» è lodevole, ma sarebbe sconsiderato chi pensasse di trovarcele realmente, le cose stesse, in filosofia. Questa premessa limitativa è il segreto della sensatezza del realismo. Un buon realismo filosofico in altre parole dovrebbe avere una chiara coscienza di essere filosofia, cioè qualcosa di poco «realistico» nella sua stessa struttura. Oggi i difensori del realismo, anche quelli di modi più bruschi e recisi (un esempio molto citato è Michael Deviti) sono tutt'altro che ingenui a questo proposito, e i loro argomenti sembrano per lo più consapevoli di appartenere al regime dell'insegna del rigattiere. Nelle posizioni di Barone circa il rapporto tra filosofia e scienza (un tema dominante in tutta la sua opera) la questione gioca un ruolo essenziale. I dibattiti sulle «due culture», come quelli sull'eventuale antagonismo o il potenziale accordo tra filosofia e scienza ad avviso di Barone sono l'esito di «una questione malposta», proprio a cau- sa del fraintendimento dei diversi livelli (o immagini) di realtà in cui si muovono le scienze, e la filosofia. Anzitutto, le «culture» sono in realtà almeno quattro, nel senso che pur ammettendo l'omogeneità di una certa cultura «umanistica» o più genericamente «non scientifica» - procedura già in sé abbastanza forzata - la scienza è una entità plurima, e istituzionalmente parlando ha tre forme canoniche, le cui basi paradigmatiche sono profondamente diverse: le scienze della natura o sperimentali, le «scienze dello spirito» (o storico-sociali, o «umane»), infine: le scienze esatte o formali. In linea di principio, si può ammettere che tutte le scienze siano interessate a «riconoscere, individuare, definire e spiegare la realtà» quale che essa sia, e tendano a fare ciò servendosi di principi e metodi rigorosi definiti e coerenti, in modo da rendere il procedimento controllabile. Eppure, questo vale certamente per le scienze della natura, forse vale per le scienze storico-sociali (arche se l'oggetto qui è per lo più il risultato di una ricostruzione), ma c'è qualche difficoltà ad applicare la definizione nella sua interezza alle scienze esatte: l'oggetto della matematica non sembra essere propriamente «reale», anche se il requisito di esattezza, rigore, ecc. in matematica è esemplificato in modo eminente. Barone osserva che tutto ciò non riguarda tanto il lavoro scientifico, quanto il «Weltbild» delle scienze, e in ultimo le immagini che le scienze hanno di se stesse, ossia - dal suo punto di vista - le «filosofie», o le «metodologie riflesse» degli scienziati. Occorre una «pausa», sostiene Barone, per passare dal- Il filosofo Fr la scienza alla immagine (filosofica) che la scienza ha di se stessa, e questa pausa dischiude un campo diverso: fraintendere questo passaggio significa confondere scienza e filosofia e così imprigionarsi nell'ignobile gara tra antichi e moderni, tra tecnocrati e umanisti. C'è però un secondo errore, alla base dei molti disguidi che governano i burrascosi rapporti tra culture, e si tratta della tendenza egemonica di una espressione culturale sull'altra, a causa di qualche forma di integralismo della teoria: «si suppone che la conoscenza per essere davvero tale debba portare a un sapere di certezza assoluta». Ma «il mito della certezza», scrive Barone, «è una mera illusione: anzi un'illusione pericolosa, perché placare la nostra ansia esistenziale con presunte certezze assolute può non di rado bloccare le risposte al nostro bisogno di sapere come le cose davvero stanno». Si avverte qui il risuonare di un principio (o, malevolmente, di un ritornello) che è stato basilare nello sviluppo della filosofia degli anni Ottanta. In quegli anni, con le fortune dell'epistemologia storica di Kuhn e l'anarchismo metodologico di Feyerabend, l'insistenza sulla natura theoryladen dell'osservazione, o la critica del «mito del dato», con le ipotesi «forti» di sociologia della conoscenza, con l'esplosione del relativismo postmoderno, e infine con la sigla che cercava di coerentizzare tutto ciò all'insegna di una rilettura nietzscheana dell'ermeneutica, ossia il «pensiero debole», questa duttilità della teoria diventava presto un'ipotesi dominante. Un buon principio di attenuazione dei dogmatismi si trasformava nella inavvertita legittimazione di un mondo televisivo e senza pensiero, o provvisto di qualcosa che molti chiamarono «pensiero di sorvolo»: uno sventato abbandonarsi dell'intelligenza ai colpi del vento e al girare delle bandiere. Di fronte a queste nuove evenienze. Barone iniziava da subito a prendere posizione predisponendo una serie di strutture teoriche di riferimento. Nei primi anni Novanta ricostruiva il percorso dalla crisi del riduzionismo neopositivista airanything goes dell'anarchismo metodologico come un preteso dissolversi dei «fatti», assorbiti dalla sovradeterminazione teorica, e ricordava: «non si può fare scienza se non si parte dalla consapevolezza che c'è qualche cosa da capire». La sua diagnosi era altrettanto recisa: queste posizioni dissolutive in verità «tentano di gabellare per scienza ciò che è riflessione filosofica sulla scienza». Citando una battuta di Vattimo «dire di qualcosa che è reale ha la stessa genericità e banalità del dire di qualcuno è un bravo ragazzo» osservava: tanto «reale» quanto «bravo ragazzo» sono costruzioni intellettuali, d'accordo, però è difficile dire di un bidone della spazzatura che è un bravo ragazzo: «il fatto che quella mia costruzione intellettuale la posso riferire a un certo tipo di essere (uomo o donna) oppure non la posso riferire ad un altro tipo di essere (bidone della spazzatura) significa che devo fare i conti con qualcosa che è la "realtà"». Forse il pensiero debole era (o poteva essere) meno debole di quanto Barone pensasse: in un certo senso, anzi, la mossa di Vattimo e Rovatti consisteva nel tentativo di salvare certe prerogative del discorso teorico in un contesto culturale infelice per la teoria. Comunque sia, il richiamo di Barone alla ineliminabilità di una certa dose preliminare di realismo nella scienza e nella tematizzazione filosofica sulla scienza aveva il merito di attirare l'attenzione su un punto che è oggi specialmente in questione, perché nelle domande sull'eutanasia, sull'aborto, sulla clonazione sembra in gioco non soltanto l'etica della scienza, ma anche (e forse primariamente) la sua metafisica, ossia la sua preliminare visione della realtà e dell'essere. E' tale visione infatti che orienta il giudizio su che cosa è la vita umana, quando comincia, quando finisce, quali sono i criteri che ne decidono il riferirsi a un singolo irripetibile individuo. Sarà vero che si tratta di realtà in immagine, come l'insegna kierkegaardiana, ma sembra essenziale discuterne le forme, ilimiti, la natura. CONVEGNO A FORLÌ Al pensiero di Francesco Barone, uno dei maggiori filosofi italiani, morto nel 2001, è dedicato oggi e domani, il convegno Francesco Barone. Natura, scienza, libertà, che si svolge alla Camera di commercio di Forlì, promosso e organizzato da Valerio Meattini e Igino Zavatti. Partecipano, Umberto Bottazzini, Valerio Meattini, Dario Antiseri, Franca D'Agostini (del cui inten/ento pubblichiamo alcuni brani), Pierluigi Barretta, Enrico Moriconi, Silvestro Marcucci, Leonardo Amoroso, Giuliano Massimo Barale, Angelo Maria Petroni, Vittorio Mathieu. Il filosofo Francesco Barone

Luoghi citati: Forlì