!» Maestro-maieuta «La musica deve respirare» di Sandro Cappelletto

!» Maestro-maieuta «La musica deve respirare» !» Maestro-maieuta «La musica deve respirare» Sandro Cappelletto A RIA, lasciate aria tra le ^'jlIl parti, la musica deve respirare», raccomandava ai suoi allievi. Ma subito dopo, come pentendosi di aver dato voce a un personale imperativo, ripeteva che le sue lezioni non dovevano servire a far nascere tanti Petrassi, ma a svelare ai futuri maestri «la vostra stessa natura». Goffredo Petrassi è stato, molto a lungo, uno straordinario didatta. Dal 1939 al 1960 ha tenuto la cattedra di composizione al Conservatorio di Santa Cecilia, poi, fino al 1978, ha insegnato ai corsi di perfezionamento dell'Accademia. È stato invitato al Mozarteum di Salisburgo, a Tanglewood negli Stati Uniti, all'Accademia Chigiana di Siena. Non ai corsi estivi di Darmstadt dove, negli anni 50, si formava, tra esiti geniali e più generici risultati, la nuova avanguardia: «Mi hanno invitato ricordava - ma non mi va di andare a fare la parte di Daniele nella fossa dei leoni». Un rifiuto che ribadiva la sua diversità rispetto a quelle esperienze compositive perché - ricorda oggi Marcello Panni, suo allievo romano - Petrassi insegnava un mestiere, non una sintassi o una grammatica piuttosto che un'altra. Era invece inflessibile sulla qualità artigianale del lavoro di compositore». Non proponeva mai agli studenti (e sono stati davvero molti: Bort.olotti, Clementi, Bernaola, Porena, Cardew, Mann, Maxwell-Davies, Vandor, Morricone, Guaggero, Ravinale) le proprie partiture: lavorava, da vero maieuta, sulle loro idee e sul modo di svilupparle al meglio. L'idiosincrasia più radicale era verso la banalità, la convenzione, l'esito più prevedibile e facile. Da quando la pittrice veneziana Rosetta Acerbi era diventata sua moglie, la parola «estro», che a Venezia significa immaginazione improvvisa e imprevedibile, era entrata nel suo vocabolario quotidiano d'artista. La usava come sinonimo di libertà dalle regole: «Lo so che a questo punto della partitura avrei dovuto scrivere così e così, e invece il mio estro mi ha ordinato di fare in modo diverso e all'estro bisogna solo ubbidire». Questo stesso estro lo guidò anche nelle predilezioni verso la pittura: nella casa romana a due passi da piazza del Popolo aveva raccolto una collezione non soltanto preziosa, ma soprattutto sua, dove si poteva riconoscere quel piacere insieme sensuale e controllato per l'evidenza del colore, per l'astrazione gentile, mai fredda o duramente espressiva. Corrado Cagli dipinse le scene periTst?!, il balletto creato con le coreografie di Aurei Milloss, Giacomo Manzù quelle per La follia d'Orlando. Le sue predilezioni andavano a Mario Mafai, Filippo De Pisis, Orfeo Tamburi, a un acquerello di Marc Chagall, una macchia di rosso che introduceva, lungo il corridoio, alla stanza dove il maestro fino agli ultimi mesi riceveva, si informava, ascoltava la radio, si faceva leggere i giornali, voleva ancora conoscere, discutere, capire. Conservava nell'anima - sull'esistenza della quale, nella sua pascaliana severità, non aveva molti dubbi - quello stupore fertile e fiducioso che, nel suo stesso racconto, si era impadronito di lui ragazzino quando per la prima volta vide Roma, arrivando in città accovacciato su un carretto a cavallo che trasportava botti di vino. Quando l'Accademia Filarmonica Romana, di cui è stato presidente e direttore artistico, gli dedicò, soltanto due anni fa, un concerto monografico e gh chiese di scegliere, oltre ai propri, anche il brano di un altro compositore a lui particolarmente caro, il maestro indicò le Chansons Madecasses di Maurice Ravel: «Lui non ha scritto molto. Gli artisti devono lavorare quando sono veramente convinti che ne valga la pena. Soltanto così servono».

Luoghi citati: Ria, Roma, Salisburgo, Siena, Stati Uniti, Venezia