STALIN morto due volte

STALIN morto due volte STALIN morto due volte IO ho avuto la ventura d'incontrare Josif Visarionovic Dzugashvili, meglio noto come Stalin, il giorno prima della sua vera morte avvenuta per ignominioso incenerimento il 29 ottobre 1961. Nel più lontano 5 marzo 1953 era deceduto non si sa come, in una dacia alla periferia di Mosca, un povero vecchio che la spaventata cricca degli intimi. Molotov, Malenkov, Berija, Kruscev, Kaganovic, stentarono quasi a riconoscere. Il logoro cadavere, dalla faccia deformata da un probabile colpo apoplettico, che dopo una fulminante agonia si presentò ai loro occhi stralunati di paura e di stupore, non aveva più nulla che ncordasse il gelido satrapo caucasico e il vittorioso condottiero della «grande guerra patriottica». Quel morto appariva come un sosia anonimo e dimesso del terribile Stalin: simulacro incartapecorito del gigante più invasato e più spietato che la storia umana avesse mai conosciuto. Venne dato allora a due imbalsamatori dinastici del Mausoleo, gli Zbarskij padre e figlio, l'ordine di restituire alla misera salma la luce della vita e della dignità perpetua che essa meritava. I due famosi artisti della mummificazione bolscevica riuscirono alla perfezione nell'impresa; ridiedero a Stalin e allo stalinismo la grinta e la veste che il culto divino di Stalin e la tetra maestà dello stalinismo esigevano: l'uniforme militare, la faccia austera e sanguigna, il pelo rossiccio, l'arcuato baffo asiatico patriarcale e minaccioso. Più che mummificazione una vera e propria resurrezione, quasi un rinnovato e tangibile certificato di «esistenza in vita». È questo Stalin macabramente vivissimo, condannato a morte da Kruscev e dal tribunale speciale del XXII congresso, che io andai a vedere nella vigilia dell'esecuzione che sarebbe stata affidata il giorno dopo a un forno crematorio. Ricordo un pomeriggio moscovita di neve e di gelo. Era ancora presente alla mia mente la petizione di un'assemblea universitaria che, in concomitanza con la fine dei lavori congressuali, aveva richiesto l'immediata cacciata della mummia cattiva dal Mausoleo della Piazza Rossa. La mummia «buona» era ovviamente quella cerea di Lenin che simboleggiava, secondo la petizione studentesca, «l'antitesi dello stalinismo». La definitiva condanna di Stalin, partita dall'università, stava già riecheggiando per tutta l'Unione Sovietica, nelle cellule di partito, nelle riunioni degli pubblici uffici, nei collettivi di fabbrica. La marea montante dello sdegno comandato, rituale caratteristicamente staliniano, si ritorceva quel giorno fatale da Stalin contro Stalin. Sulla Piazza Rossa rividi per l'ennesima volta la' scena di devozione collettiva tante volte vista e descritta. La solita infinita coda contadina, serpeggiante per qualche chilometro, paziente e silenziosa per il solo fatto di costeggiare le mura del Cremlino e del mummificio della Rivoluzione. Sentivo i bisbiglìi delle donne, per la maggior parte vecchie, più numerose degli uomini, che sbriciolavano moccoli di preghiere ortodosse alle mie spalle. Osservavo gli uomini che si tòglievano rispettosamente, religiosamente, il colbacco molto prima di superare i militi di guardia e il muricciolo che circonda il dado di granito della cripta. Mai come in quell'istante la massa russa, che a brevi passi funerei s'infilava strisciante e timorosa dentro la penombra del sacrario, m'era apparsa così anacronistica, così impastata di fanghiglia e di afrori che sapevano di steppa e taigà. Una massa greve, ancora sensibile al magico, riempita di pochi sentimenti primordiali, che non leggeva la Pravda e sapeva poco, in genere, di quanto accadeva dietro le muraglie che essa rasentava trattenendo il respiro. I corpi, imbottiti di pellicce e di mantelli, apparivano catafratti in una sorta di mestizia placida e dolente, di pazienza mistica sprofondata all'infinito dentro se stessa. Notai che nei mormorii Stalin, come se fosse davvero vegeto e sveglio, a un fiato dalla folla che gli andava lenta e pesante incontro. veniva evocato assai più di Lenin. Un vegliardo, che mi precedeva, andava sussurrando a un vicino: «Uno dei miei nipoti, che fa il soldato, mi ha tanto raccomandato di non lasciare Mosca senza vedere Stalin prima che muoia per sempre». Molti erano venuti da lontano per contemplarlo e salutarlo un'ultima volta. D'altronde, sapevo da un pezzo che più ci si allontanava dalle grandi città, più si scendeva in basso la scala dell'ignoranza e dell'analfabetismo, tanto più il ricordo di Stalin si faceva intenso e nostalgico. Sapevo che le plebi rus¬ se amavano idolatrare soprattutto i tiranni più sanguinari. Sapevo che nell'indice di gradimento Stalin veniva subito al quarto posto dopo Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Puskin. Sapevo che le maggioranze non capivano e anzi disprezzavano il caotico e poco feroce riformismo di Kruscev. Anche in quelle ore fatali di svolta, di muta stupefazione, di riluttante congedo dalla salma del tiranno, una collettiva sindrome di Stoccolma sembrava attanagliare la mente e l'anima di una Russia oscuramente dostoevskiana e masochista. Non appena mi ritrovai dentro la cripta, riuscii a dare subitanea corposità alle mie riflessioni. Vidi la gente che scivolava con frettolosa distrazione davanti alla salma di Lenin, indugiando invece con confi- denza assorta, una confidenza insieme amica e supina, davanti alla mummia più fresca, più luminosa e solenne ài Stalin. La disposizione dei sarcofaghi trasparenti obbligava i visitatori a incontrare prima Lenin e poi Stalin. Come dire: prima il remoto dottor Frankenstein, lo scienziato della rivoluzione quasi dimenticato, poi la sua creatura criminale, assai più vicina e più comprensibile all'immaginazione popolana. Le mani abili e gli acidi dei due provetti imbalsamatori avevano fatto il possibile per conservare al meglio la mummia del progenitore che, rimossa e scoperchiata nelle ore in cui i tedeschi si trovavano alle porte di Mosca, aveva rischiato di polverizzarsi nel contatto dissolvente con l'ossigeno. L'insulto chimico aveva lasciato comunque il segno, conferendo al ligneo cadavere di Lenin, sullo sfondo buio del santuario, l'aspetto di un falso: un manichino innaturalemte giallastro che poteva ispirare, tutt'al più, un distaccato rispetto. Al posto delle gambe si percepiva un vuoto malamente occultato da un drappo di lana nera. La testa non aveva più proporzioni umane. Era troppo minuta, prosciugata, riassorbita in se stessa come quella delle vittime sacrificali di certe tribù dell'Amazzonia; i radi fili argentei della barbetta appuntita risaltavano anch'essi innaturalmente sul nero della cravatta e della semplice giacca mortuaria. Un'icona smorta, distante, un'idea corporale più che una mummia ipnotica ed efficace. Stalin, per contro, appariva come il vero e trionfale capolavoro degli imbalsamatori Zbarskij. Essi, involontariamente, congelando i resti di Lenin e arroventando le spoglie di Stalin, avevano scolpito una grande pagina di storia ideologica. Il vampiro partorito dalla mummietta un po' secondaria di Lenin si presentava nell'involucro quasi naturale di un uomo che, spirato da poco, avesse conservato sotto la pelle appena raffreddata il calore e il fluido del sangue vivo. Una mummia a tutto tondo: imponente, vigorosa, per cosi dire autentica e sul punto di tornare alla vita da un momento all'altro! Perfino la bacheca, che la memoria rivede gigantesca, nella quale Stalin sembrava dormire austeramente composto in un provvisorio sonno draculesco, appariva più maestosa della cassa in cui Lenin giaceva spiaccicato sotto lo scialle tirato alla buona sopra il buco delle gambe inesistenti. Invece le gambe robuste, visibilissime di Stalin, infilate in un paio di pantaloni color cachi, allungandosi tutt'intere lungo 0 sarcofago conferivano un tocco in più di consistenza veristica a quel suo cadavere sontuoso e quasi irriverente. A causa della luce tagliente e dura, che la illuminava intensamente conno i lastroni di marmo grigioferro del luogo, la faccia esibiva un incamcdu troppo acceso, come inciprialo da uno spruzzo di fosforo sanguigno. Le guance pesanti, il mento cadente sopra la casacca militare abbottonata fino alla gola, tutta ricoperta di medaglie e nastrini multicolori, emanavano anch'essi un riverbero rossastro e un poco polveroso; ma era soprattutto dai capelli a spazzola e dai baffi ispidi che sprizzava il riflesso, anzi il brivido di un pelo particolarmente vermiglio, infiammato, elettrico, il volto truccato di quel caro estmto, caro specialmente ai mugichi che contemplandolo si facevano in silenzio il segno della croce, poteva evocare la maschera di un attore col cerone che, sotto il fascio dei riflettori, faceva il Nosferatu sulla scena. Non potei trattenermi dal pensare che da un momento all'altro avrebbe potuto schiudere un occhio e sbeffeggiarci tutti quanti. Ripeto, all'incirca, quello che già scrissi nella corrispondenza inviata alla Stampa da Mosca la sera del 28 ottobre 1961. La cosa che maggiormente m'impressionò fu una certa smorfia iicudomcn che neppure la morte, e neanche i bravissimi imbalsamatori, uiano riusciti a comprimere sotto la maschera di quel defunto così straordinariamente vivace. Trapelava, fra i suoi baffi luciferini, una piega strana, sorniona, un guizzo di pervicace soddisfazione che contrastava con l'insignificante grigiore che irrigidiva, più in là, la faccia inerte di Lenin. Anche come mummie i due costruttori dell'Unione Sovietica apparivano diversi e complementari. Lenin tutto astrattezza, fissità mentale, ipocondrid ideologica, freddo oratore da congresso ed estensore di mozioni settarie quanto puntigliose; Stalin tutto istinto, rozzezza, crudeltà, passionalità vendicativa, abilità di carnefice operativo che, in nome di un futuro che non arrivava, portò milioni di individui alla morte nel presente ùnmoto dagli anni 30 ai primi 50. Dall'intellettuale fanatico e pragmatico al «Gengis Khan col telegrafo», preconizzato da Herzen, il passo fu stranamente fisiologico. Non a caso, dei cinque possibili eredi nominati da Lenin nel famoso «testamento», Trockij, Bucharin, Kamenev, Zinovev e Stalin, soltanto l'ultimo doveva sopravvivere e guadagnare la successione. Il giorno dopo il Mausoleo venne improvvisamente sprangato. Comparve sull'entrata un cartello che diceva «Zakryt na remont», chiuso per riparazioni. Dalla facciata di granito scomparve il nome di Stalin. Poi, nella notte, si consumò la sua seconda e vera morte; la mummia venne bruciata e le sue ceneri murate in uno dei loculi minori che circondano il gran sepolcro. Il manichino di Lenin restò solo: ed è ancora sempre là, in pieno Duemila, adoralo da pochi pensionali e ignorato dai più. Stalin nascea Gori, presso Tiblisi in Georgia, nel 1879. Entra giovanissimo nei circoli rivoluzionari: nel 1913 viene esiliato in Siberia. Ma nel 1917 fa ritorno a Mosca e partecipa ai moti della rivoluzione d'ottobre. Nel 1922 diventa segretario generale del partito comunista, vedendo rafforzato il suo potere, nei confronti diTrockij, dalla morte di Lenin (21 gennaio 1924). Negli Anni Trenta è il capo di un regime, che elimina i dissidenti con l'atmosfera di terrore delle «purghe staliniane». Il 23 agosto 1939 sigla il discusso «patto di non aggressione» con Hitler. Ma il 24 giugno 1941 la Germania dichiara guerra all'Urss. Nel febbraio del 1945 Stalin partecipa alle negoziazioni di Yalta, che portano alla divisione del mondo fra le due aree d'influenza americana e sovietica. È protagonista, dal 1945, della «guerra fredda». Muore il 5 marzo 1953. SPIRATO IN UNA DACIA IL 5 MARZO 1953, OTTO ANNI DOPO 5 MARZO 1953, OTTO ANNI DOPO LA SUA MUMMIA FU ia, nel 1879. Entra giovanissimo nei circoli n Siberia. Ma nel 1917 fa ritorno a Mosca e obre. Nel 1922 diventa segretario generale il suo potere, nei confronti diTrockij, dalla egli Anni Trenta è il capo di un regime, che rore delle «purghe staliniane». Il 23 agosto ssione» con Hitler. Ma il 24 giugno 1941 la Nel febbraio del 1945 Stalin partecipa alle ano alla divisione del mondo fra le due aree enza americana e sovietica. È protagonista, a «guerra fredda». Muore il 5 marzo 1953. HÈm Tra la folla chil 28 ottobre 196veniva a guardarper l'ultima volnel Mausolesulla Piazza Rosmuricciolo che circonda il dado di granito della cripta. Mai come in quell'istante la massa russa, che a brevi passi funerei s'infilava strisciante e timorosa dentro la penombra del sacrario, m'era apparsa così anacronistica, così impastata di fanghiglia e di afrori che sapevano di steppa e taigà. Una massa greve, ancora sensibile al magico, riempita di pochi sentimenti primordiali, che non leggeva la Pravda e sapeva poco, in genere, di quanto accadeva dietro le muraglie che essa rasentava trattenendo il respiro. I corpi, ibttiti di llic di mantelliSTALIN morto due volte LA SUA MUMMIA FU CONDANNATA AL FORNO CREMATORIO Tra la folla che il 28 ottobre 1961 veniva a guardarlo per l'ultima volta nel Mausoleo sulla Piazza Rossa