PER ELEZIONI LIBERE IN IRAQ di Barbara Spinelli

PER ELEZIONI LIBERE IN IRAQ PRIMA PAGINA PER ELEZIONI LIBERE IN IRAQ Barbara Spinelli Tanti mezzi potrebbero esser con loro discussi, tante politiche di cui la guerra sarebbe, appunto, l'ultima e forse non necessaria risorsa. Un appoggio europeo a libere elezioni in Iraq sotto il controllo Onu e un esplicito sostegno alla Resistenza Irachena: questo potrebbe essere il nucleo di un'iniziativa politica dell'Unione. Sarebbe un segnale importante che l'Europa manderebbe agli Stati Uniti, e dell'esperienza europea gli americani avranno bisogno nel dopo-Saddam, per ricostruire l'Iraq. Segnalerebbe forza del nostro continente, capacità di iniziativa, pre¬ veggenza politica, conoscenza del terreno. Contribuirebbe anche a una convergenza tra gli europei che stanno riunificandosi. Gli ex dissidenti dell'Est, dall'ungherese Gyòrgy Konrad al polacco Bronislaw Geremek, sanno forse meglio di noi, quel che vuol dire vedersi negare la libertà: in questo Condoleezza Rice non ha torto. Ma la loro esperienza e la loro memoria devono poter diventare lievito durevole per la nostra Unione in Europa, e non essere usate da Washington per occasionali, passeggere politiche di imperio e divisione. Contrariamente a quel che credono molti governanti europei, infatti, l'amministrazione Usa non monopolizza per intero gli oppositori iracheni, e questi non sono mere marionette americane. Non pochi dubbi si stanno facendo strada fra i resistenti, di fronte alla precipitazione e alle noncuranze statu¬ nitensi. Cominciano a dubitare seriamente anche grandi figure del dissenso, come il capo del Congresso Nazionale Iracheno Ahmed Chalabi o Kanan Makiya, autore del più prestigioso libro sul regime di Saddam {Republic offear - La repubblica della paura, scritto nell'SO). Quel che molti oppositori temono è l'approssimazione e il cinismo, la straordinaria imperizia politica e l'incoerenza degli Stati Uniti. L'accordo americano con la Turchia, in particolare, li allarma: un'alleanza che è stata acquistata in cambio di prebende, e dell'accettazione da parte Usa della strategia anti-curda di Ankara. Le opposizioni sia sciite che curde fanno affidamento sulla Repubblica Autonoma del Kurdistan, dove molti esiliati stanno ultimamente rientrando: in questa zona protetta dall'Onu si è creata una prima forma di democrazia plu¬ ralista, con liberi giornali e libera opposizione, presidiata da quarantamila soldati locali. Gli oppositori di Saddam non voghono sacrificare questa roccaforte, e diventare vittime d'un patto scellerato americano-turco che li sgominerà. Makiya, inoltre, teme che l'amministrazione militare americana insedierà a Baghdad un governo fantoccio, con uomini legati al vecchio regime e al Baath sunnita. L'opposizione in altre parole paventa quel che gli americani rimproverano agli europei: la non fedeltà a quel che è stato fatto nel dopoguerra tedesco e giapponese, la rinuncia alla denazificazione dell'Iraq. E' un peccato che simili timori non possan esser discussi con gli europei. Questa cooperazione euroirachena potrebbe partire dalle memorie dell'Iraq resistente, e uscire dalle strettoie della memoria euro-americana. Si ve¬ drà, allora, che la memoria irachena è piena di dubbi sull'America. Gli iracheni democratici non hanno dimenticato l'appoggio che Stati Uniti ed europei hanno garantito a Saddam, negli anni in cui il nemico era l'Iran di Khomeini. Americani ed europei tacquero sull'impiego di gas contro i soldati iraniani e contro gli insorti curdi. Ma fu l'America soprattutto, all'indomani della brusca interruzione della prima Guerra del Golfo, ad abbandonare le opposizioni irachene dopo averle ufficialmente incitate a rovesciare Saddam. Erano esattamente dodici anni fa, 1' 1 marzo 1991, un giorno dopo la tregua, quando Bush senior pronunciò il suo famoso appello all'insurrezione in Iraq: Washington l'avrebbe spalleggiata. E subito le opposizioni si mobilitarono. Gli sciiti, che rappresentano il 60 per cento della popolazione (i sunniti rappresentano il 17) furono i primi a sollevarsi, conquistando varie città a Sud dell'Iraq. Seguì l'insurrezione dei curdi, il 14 marzo (20 per cento della popolazione). Gli insorti vennero consegnati al massacro, con l'America che stette a guardare e che investì Saddam di nuovo potere legittimo. Anche su queste insurrezioni esiste un testo indispensabile di Makiya {Crueltyand Silence: War, Tyranny, Uprising and theArab World - Crudeltà e silenzio: guerra, tirannide, insurrezione e il mondo arabo, 1994). Inspiegabilmente, nessuno dei suoi libri è stato tradotto in Italia o Francia. C'è dunque qualcosa di malsano, quando i governanti americani montano in cattedra e in nome della memoria accusano gli europei di non essere coerenti, di aver dimenticato il patto di Monaco che consegnò l'Europa a Hitler nel '38, di non ricordare i benefici liberatori dell'occupazione in Germania e in Giappone. Gli oppositori iracheni sperano molto nella Casa Bianca, ma hanno brutti ricordi dell'incoerenza americana e forse sperano di non dipendere solo da Washington, e da guerre-lampo che così di rado, ormai, contemplano Piani Marshall e dopoguerre veramente preparate. I Piani Marshall e le ricostruzioni sono ormai uno strumento in mano degli europei, come dimostra l'esperienza postbellica in Kosovo. Ma per poter essere protagonisti di questa politica gli europei dovranno divenire un punto di riferimento stabile, per chi in Iraq vuol combattere il tiranno, e non trasformare il Paese in una pompa di benzina degli Stati Uniti: per chi vuol tentare una democrazia araba che eviti il dominio di un'etnia sull'altra, e l'uso sconsiderato della triplice arma del petrolio, della religione e del terrorismo.