Il 3,5 % della produzione è a rischio con l'attacco di Francesco Manacorda

Il 3,5 % della produzione è a rischio con l'attacco IN GIOCO LA QUOTA DELL'IRAQ E DEI PAESI CONFINANTI Il 3,5 % della produzione è a rischio con l'attacco Gli Stati Uniti pronti a intervenire mettendo in campo le loro riserve strategiche. Forti le pressioni sull'Opec analisi Francesco Manacorda RISERVE in calo, un inverno rigido e una guerra alle porte. Agitare con forza, condire con le tensioni sul fronte dei paesi islamici e qualche dubbio sulla capacità di reazione dell'Opec ed ecco servito lo choc petrolifero che ieri ha spedito negli Usa i prezzi del future di marzo sul Wti - il greggio a stelle e strisce - a sfiorare gli stessi livelli di dodici anni fa, quando Desert Storm era sul punto di scatenarsi proprio per assicurare che i preziosi pozzi del Kuwait non finissero in mano a Saddam Hussein. Lo chiamano «war premium», il premio della guerra - che sia già in atto o ancora solo all'orizzonte - il sovrapprezzo che va ad aggravare il costo del barile, quando la politica lascia spazio alle armi. Un premio che in questi mesi si è aggirato tra i 2 e i 6 dollari, ma che nelle ultime settimane è diventato altissimo: specie negli Stati Uniti, specie per quel che riguarda il futuro più immediato. A sfiorare il tetto dei 40 dollari è stato infatti per ora solo il future sul Wti con consegna a marzo, mentre i contratti americani con consegna ad aprile e maggio hanno prezzi assai inferiori e il barile di Brent - il greggio del mare del Nord di riferimento per i mercati europei - viaggia addirittura cinque o sei dollari sotto i livelli d'Oltreoceano: segno evidente che, se la paura della guerra è grande, la certezza degli operatori è che comunque si tratterà di una guerra breve. E se guerra sarà, come il barometro del petrolio già prevede, i mercati si preparano a fare a meno dei due milioni e mezzo di barili quotidiani che arrivano dai pozzi iracheni. E' appena il 3,5 per cento della produzione mondiale, ma di questi tempi ogni goccia di petrolio in meno si fa sentire sulle quotazioni. Senza contare, poi, che un conflitto in Iraq, si ripercuoterebbe in modo quasi automatico sulle esportazioni dei suoi vicini: il Kuwait e l'Arabia Saudita. Negli Usa, del resto, le tormente di neve spingono i consumi al 200Zo in più dell'ultimo inverno; il settimanale Business Week strilla in copertina: «Facciamoci furbi sul petrolio», chiedendo agli americani di ridurre la loro «dipendenza» dal greggio; le riserve statunitensi scendono a 272 milioni di barili, il livello più basso dal 1975 e appena due milioni di barili sopra la soglia minima per garantire il normale funzionamento delle raffinerie. Certo, ci sono sempre 600 milioni di barili che costituiscono la riserva strategica degli Stati Uniti, da aprire solo in caso di emergenza. Il Segretario per l'Energia Spencer Abraham ha già detto all'inizio di questa settimana che in caso di una «grave» crisi di approvvigionamenti l'amministrazione Bush è pronta ad aprire i rubinetti della riserva strategica. Washington lo ha già fatto, ad esempio proprio ai tempi della guerra del Golfo, ma sono proprio le grandi compagnie petrolifere Usa che si oppongono a un'intervento pubblico perchè - sostengono - avrebbe un effetto distorsivo sull'equilibrio dei prezzi garantito dalla domanda e dall'offerta. Ma certo, l'effetto depressivo sulla congiuntura di un prezzo del barile così alto potrebbe presto mordere a fondo un'economia Usa già tutt'altro che florida. C'è anche ci vuole veder muoversi l'Opec prima che Washington apra i suoi rubinetti, ma l'Organizzazione dei paesi produttori - che fornisce comunque solo il 40 per cento del greggio consumato nel mondo - ha sempre più problemi ad influenzare le quotazioni. Il prezzo del barile - è la filosofia che l'Opec enuncia insistentemente, ottenendo l'entusiastica adesione dei paesi consumatori - debbono rimanere nella fascia compresa tra i 22 e i 28 dollari. Peccato che da questo non avvenga da mesi e che l'Opec, già costretto ad aumentare la propria produzione di fronte alla crisi venezuelana che ha bloccato i pozzi in gennaio e febbraio, si trovi adesso alle prese con altre possibili tensioni innescate dagli scioperi in Nigeria, il secondo produttore dell'Organizzazione dopo l'Arabia Saudita. E le dichiarazioni di ieri del segretario generale Alvaro Silva Calderon, secondo il quale l'Opec «non utilizzerà il petrolio come arma politica», bilanciano a fatica le uscite del premier malese Mahathir Mohammad che appena ventiquattr'ore prima ha invitato i paesi islamici a usare il greggio come mezzo di pressione per evitare la guerra all'Iraq.

Persone citate: Alvaro Silva Calderon, Bush, Desert Storm, Mahathir Mohammad, Saddam Hussein, Spencer Abraham