LA GUERRA ECONOMICA

LA GUERRA ECONOMICA LA GUERRA ECONOMICA Mario Deaglio C' E' una guerra nascosta che gli Stati Uniti combattono da circa due anni e si aggiunge alla guerra che forse combatteranno apertamente tra un paio di settimane; è molto più subdola, più scivolosa, più diffìcile di quella irachena, per affrontarla non dispongono di armi micidiali e sono costretti a stare in trincea anziché prepararsi all'attacco. A differenza di quanto avviene per il Golfo, gli altri paesi non possono chiamarsi fuori: sono tutti, direttamente o indirettamente, coinvolti. Si tratta della guerra contro la crisi economica, un «secondo fronte» per l'America ma primo fronte per il resto del mondo; e se il ministro della Difesa Rumsfeld si aspetta, con quella che a molti sembra un'irresponsabile sottovalutazione, di poter «finire tutto» nel Golfo nel giro di poche settimane, il governatore Alan Greenspan sostiene che l'economia americana si comporta come un'auto finita in un pantano dal quale non riesce a districarsi e che i tempi per ripartire sono molto più lunghi. Da questo secondo fronte, negli ultimi giorni sono arrivate notizie negative. La bilancia commerciale americana ha toccato, in dicembre, un deficit di proporzioni enormi (a oltre tremila miliardi di vecchie lire al giomo) il che, oltre agli Stati Uniti, non può non impensierire i loro fornitori. Per conseguenza, sarà quasi certamente rivista al ribasso la produzione dell'ultimo trimestre del 2002 ma i mercati finanziari hanno già anticipato la revisione: un anno fa ci volevano circa 86 centesimi di dollaro per comprare un euro, oggi non ne bastano 107, una perdita di valore della moneta americana che supera il 20 per cento, accumulata soprattutto negli ultimi quattro mesi. Oltre al deficit estero, su di essa influisce il deficit pubbhco, cresciuto anche per l'effetto delle spese per la lotta al terrorismo. E qui i due fronti di guerra si toccano. La perdita di valore del dollaro espone in pieno gli Stati Uniti all'ondata dei rincari del petrolio - mentre la salita dell'euro offre all'economia europea qualche riparo - il che si ripercuote oggi sui costi di produzione e forse domani sui prezzi. Parallelamente, sentendosi minacciati dalla guerra, gli americani non mettono molto entusiasmo nel consumare, le imprese americane ritardano gli investimenti, la disoccupazione tende all'aumento, i profitti alla riduzione. Pur vantando l'economia americana una straordinaria solidità di fondo, con produzione ferma e prezzi crescenti, la temutissima stagflazione diventa una possibilità che fa più paura di Saddam, e non può lasciare indifferenti gli europei. L'economia può unire là dove la politica divide. Proprio sulla comune necessità di evitare, in ogni caso, una crisi economica mondiale si può riaprire un discorso tra America ed Europa, oggi non solo divise sull'Iraq ma prive di grande simpatia reciproca. Tale discorso deve partire dal riconoscimento dell'inefficacia dei rimedi alla crisi adottati da entrambi: non basta ridurre le imposte sui dividendi, pagate dai ricchi, come fanno gli Stati Uniti né rinviare riforme fondamentali come sta facendo l'Europa. Non basta vincere la guerra in sei settimane, come si spera a Washington né illudersi che il patto di stabilità copra il vuoto della politica economica come avviene a Bruxelles. Bisogna affrontare con chiarezza non la congiuntura europea ma quella mondiale; in caso contrario, i problemi globali emersi alla conferenza di Johannenburg resteranno senza risposta e qualunque vittoria militare nel Golfo risulterà, oltre a uno spreco di vite e di risorse, anche spreco di .un tempo che si è fatto scarso. mario.deagllo@unlto.it

Persone citate: Alan Greenspan, Mario Deaglio, Rumsfeld