Il migliore degli UNIVERSI possibili

Il migliore degli UNIVERSI possibili «IL PRINCIPIO ANTROPICO» DI BARR0W E TIPLER: UNATESI AFFASCINANTE MA DISCUTIBILE CHE PRETENDE DI SPIEGARE SU BASI COSMOLOGICHE L'ESISTENZA DELLA VITA Il migliore degli UNIVERSI possibili Claudio Bartocci DOPO Copernico l'uomo sa di non essere più al centro dell' universo. La Terra è un semplice pianeta e il Sole soltanto una stella di periferia, che compie una rivoluzione completa attorno al centro della Via Lattea in circa 200 milioni di anni, alla velocità di 250 chilometri al secondo. La stessa Via Lattea - che, nei versi di Dante, «distinta da minori e maggi Z lumi biancheggia tra' poli del mondo» - non è che una galassia anonima in uno sconfinato oceano di altre galassie: si stima che con i moderni telescopi ne siano visibili più di 50 miliardi, ciascuna popolata di miliardi di stelle. Sperduto negli abissi del cosmo, l'uomo ha anche dovuto rinunciare al ruolo privilegiato di signore del creato. L'evoluzionismo darwiniano, riveduto e corretto dalle scoperte della biologia molecolare, mostra che la storia della vita non è un progresso costante verso una sempre maggiore eccellenza, bensì un percorso aleatorio, che si disperde in mille rivoli. All'angosciata riflessione di Pascal, «il silenzio di quegli spazi infiniti mi sgomenta», fa eco, tre secoli più tardi, la disillusa constatazione di Jacques Monod: «l'uomo sa di essere solo nella indifferente immensità dell' universo, da cui è emerso soltanto per caso». Ma ci sono scienziati che la pensano diversamente, come illustrano con dovizia di argomenti John Barrow e Frank Tipler nell' importante saggio II principio antropico, appena tradotto da Adelphi (pp. 770, C 55), dopo essere apparso negli Stati Uniti nel 1986. Non è certo un volume di agevole lettura, nonostante la chiarezza espositiva degli autori (fedelmente restituita dall'eccellente traduzione di Francesco Nicodemi), a causa della vastità dei temi affrontati, che spaziano dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla cosmologia alla chimica, con argomentazioni che spesso richiedono al lettore conoscenze piuttosto avanzate di matematica e fisica teorica. La tesi presentata, tuttavia, è affascinante, sebbene controversa, ed è di grande interesse anche per le sue implicazioni filosofiche. L'osservazione, apparentemente ovvia, che sta alla base del principio antropico, è che, fermo restando il principio copernicano, «la nostra posizione nell'universo - come ebbe occasione di scrivere nel 1974 l'autorevole relativista Brandon Carter - è necessariamente privilegiata, nella misura in cui deve essere compatibile con la nostra esistenza come osservatori». In altri termini, il fatto stesso che sulla Terra - un pianeta né troppo vicino né troppo lontano da una stella di tipo spettrale G2 si sia evoluta la vita, e più in particolare la vita intelligente, contribuirebbe a fissare dei vinco- li precisi e inderogabili all'architettura dell'universo. Se quest'ultimo è abitabile, infatti, e se noi ci troviamo qui a osservarlo, ciò ha richiesto il concorrere di un numero così elevato di circostanze specifiche, il verificarsi di coincidenze così miracolose, che sarebbe irragionevole considerare tutto l'insieme un semplice prodotto del caso. Facciamo alcuni esempi. I biochimici sono convinti che il carbonio, l'elemento su cui si fonda la chimica degli organismi viventi, sia la sola base possibile per la generazione spontanea della vita. Gli unici elementi sintetizzati nell' immane esplosione, il Big bang, che diede origine al nostro universo, furono l'idrogeno e l'elio: tutti gli altri elementi pesanti, carbonio incluso, vengono fabbricati nelle stelle attraverso fenomeni di fusione nucleare. Il cosiddetto «processo tre alfa», mediante il quale nuclei di elio si combinano a formarne uno di carbonio, è reso possibile da una delicata alchimia quantistica, che richiede una determinata risonanza nucleare corrispondente a un determinato livello energetico del carbonio. L'esistenza di questa risonanza - prevista sulla base di un ragionamento di carattere squisitamente antropico dall'astrofisico (nonché scrittore di fantascienza) Fred Hoyle negli anni 50 e successivamente verificata sperimentalmente - dipende in ultima analisi dai rapporti reciproci di varie costanti fisiche, quali la massa dell'eie^trone, la massa del protone, l'intensità dell'interazione elettromagnetica. Se queste fossero diverse, non vi sarebbe carbonio nell'universo e quindi nemmeno la vita organica, così come la conosciamo. Altra coincidenza: l'ossigeno, che si forma dalla combinazione di un nucleo di carbonio e uno di elio, ha un livello energetico leggermente inferiore all'energia totale di carbonio -l- elio. Se così non fosse. anche questo reazione sarebbe risonante e tutto il carbonio scomparirebbe nel processo di nucleosintesi. Ancora: se la forza di gravità fosse molto più intensa di quello che è, le stelle sarebbero più piccole che nel nostro universo ed esaurirebbero la loro scorta di combustile nucleare prima che qualsiasi forma di vita complessa possa avere il tempo di svilupparsi. Arthur Eddington lavorò per vent'anni alla sua «teoria fondamentale» (1944), secondo la quale tutte le costanti fondamentali della natura si possono dedurre a priori, attraverso un formalismo puramente algebrico, a partire dal cosiddetto numero cosmico. Paul Dirac azzardò nel 1937 l'ipotesi dei grandi numeri (obiettivamente, non la sua idea migliore): «data una qualunque coppia di numeri adimensionali molto grandi presenti in natura, tra essi esiste una relazione matematica semplice i cui coefficienti sono dell'ordine dell'unità». In una prospettiva analoga a quella che sottende simili congetture cosmico-numorologiche, il principio antropico afferma, nella sua versione debole d' unica in qualche modo difendibile), che «i valori osservati di qualunque grandezza fisica e cosmologica non sono tutti ugualmente probabili, ma sono soggetti alla restrizione che esistano luoghi dove possa evolversi una vita basata sul carbonio e che l'universo sia abbastanza vecchio perché ciò sia già avvenuto». In sostanza, si postula che tra i molti universi possibili (o regioni d'universo, se si preferisce), quello che ci ospita si caratterizza proprio per il fatto che le costanti fondamentali assunsero, nel momento ilei Big bang, i valori giusti a garantire la nostra esistenza. Nonostante tra i suoi sostenitori si annoverino non pochi autorevoli scienziati - John Wheeler e Freeman Dyson tra gli altri -, il principio antropico non è guardato di buon occhio dalla comunità scientifica. In effetti, a dispetto degli eroici tentativi di Barrow e Tipler di dimostrare il contrario, non sembra avere una grande solidità teorica. Innanzitutto, si basa sull'osservazione sperimentale di un insieme di coincidenze. Tuttavia le coincidenze, per quanto possano essere numerose, non solo non provano nulla di per sé (è sufficiente, a stabilirlo, qualche rudimento di teoria delle probabilità), ma, a ben riflettere, esistono soltanto nell'occhio di chi guarda, proprio come la bellezza. In secondo luogo, il principio antropico è un'argomentazione di tipo finalistico, non dissimile nella sua struttura concettuale dalla prova teleologica dell'esistenza di Dio, la «quinta via» di San Tommaso: nell'universo è evidente l'esistenza di un progetto che permette di arrivare a una conoscenza «vera» attraverso un'interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali. Il finalismo ha alle spalle una nobile tradizione filosofica, ma è estraneo al metodo scientifico, come era ben chiaro già a Galileo. «La ricerca delle cause finali scriveva Bacone - è sterile: come una vergine consacrata a Dio non partorisce nulla». La supposizione, a più riprese formulata da Barrow e Tipler, che nella scienza di oggi le spiegazioni teleologiche sopravvivano sotto forma di «prin¬ cipi variazionali» (le versioni moderne del principio di minima azione) è irrevocaLilmente errata (una sua convincente confutazione è fornita, ad esempio, da Ivar Ekeland nel recente volume II migliore dei mondi possibili. Matematica e destino, ed. Bollali Boringhieri). Infine, se si spoglia il principio antropico di ogni suggestione finalistica e lo si interpreta come un'asserzione controfattuale del tipo «se l'universo non fosse come è, allora noi non saremmo qui», allora esso diventa un'innocua tautologia, che sarebbe possibile applicare a tutto ciò che esiste. Come ha suggerito il fisico Bernard d'Espagnat, potremmo inventarci ad esempio un «principio cristallico», secondo cui le costanti fondamentali avrebbero i valori che di fatto hanno soltanto per permettere 1 esistenza dei cristalli di neve. Il fascino del principio antropico sta indubbiamente nel fatto che sembra offrire una spiegazione su base cosmologica all'esistenza della vita, rispondendo così a uno degli interrogativi primordiali dell'uomo. Come il finalismo biologico (quello, ad esempio, professato da William Paley nella sua Naturai Theology] fu definitivamente sconfitto non in virtù della sua debolezza filosofica ma per l'affermarsi di una teoria più solidamente fondata, cioè l'evoluzionismo di Darwin, cosi il principio antropico, ce da ritenere, sarà abbandonato quando si sarà elaborata una teoria cosmologica capace di affrontare efficacemente la delicatissima questione delle condizioni iniziali dell'universo. È possibile che una teoria fisica sia in grado di spiegare perché le costanti fondamentali assumono i valori osservati e non altri? Oppure perché l'universo ha soltanto tre dimensioni spaziali macroscopiche? Il nostro universo è unico o solamente, come ipotizzato da Andrei Linde, una piccola isola in uno sconfinato arcipelago cosmico (il multiverso) costituito da miriadi di universi-isola distinti? Un'idea audace per tentare di dare una risposta a simili interrogativi è stata proposta di recente dal fisico Lee Smolin, che ha elaborato un'originale teoria della selezione naturale cosmologica. Dai buchi neri nascono nuovi universi, che possono differire tra loro per alcuni parametri, quali le masse delle particelle e l'intensità delle forze fondamentali. Dopo un gran numero di «generazioni», i discendenti di quegli universi i cui parametri sono ottimali per la produzione di buchi neri costituiranno la «specie» più diffusa. Insomma, le leggi della fisica dell'universo in cui viviamo, suggerisce Smolin, non sarebbero fatte su misura per permettere lo sviluppo della vita, bensì per favorire la proliferazione di quegli strani oggetti fisici che chiamiamo buchi neri. Con buona pace di Homo sapiens. Un'argomentazione di tipo finalistico: ricorda la prova teleologica di Tommaso d'Aquino ^«««ì;. vm ~*éi* M' fOrris 'W*i

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