BAGHDAD-MILANO

BAGHDAD-MILANO una pìccola comunità1 lacerata dalla paura: «bombarderanno il nostro paese, che fine faranno i nostri cari?» BAGHDAD-MILANO Iracheni d'Italia: «Né con Saddam, né con gli Usa» reportage Brunella Giovata MltANO NELLO studio milanese del dentista Sami Albaiaty la televisione - piazzata strategicamente davanti alla poltrona del paziente - è sempre sintonizzata su Al Jazeera. Sempre, «per seguire meglio le fasi della crisi. Bombarderanno il mio Paese, ed io voglio sapere che fine faranno i miei parenti, a Baghdad». Così, chi aveva appuntamento con questo gentilissimo medico iracheno specialista in protesi dentali, nei giorni scorsi ha potuto veder scorrere le immagini di Berlusconi, Rumsfeld e Martino, le loro strette di mano e i sorrisi, e le riprese dei marines schierati in Kuwait, carri armati, convogli di soldati fermi sotto un sole accecante. A richiesta, il dottor Albaiaty ferma il trapano e traduce la voce araba dello speaker di Al Jazeera: «Adesso sta dicendo che Berlusconi si è schierato con gli Stati Uniti nonostante la forte opposizione in Parlamento». E lei, dottore, cosa pensa? «Che ci sarà la guerra, purtroppo. Che dopo i bombardamenti nel mio popolo si formerà una ferita difficile da rimarginare. Dico anche che si fa troppo poco per la pace, e che ormai tutti - a partire dagli europei - sembrano rassegnati alla guerra». Il pensiero del dottor Albaiaty è quello degli iracheni - pochi - che vivono in Italia. Volendolo riassumere in uno slogan facile, «né con Saddam, né con gli americani». E se Saddam accettasse di lasciare volontariamente il paese per andare in esilio? «Sarebbe bellissimo. Ma non ci andrà mai. Noi lo conosciamo... non si fiderebbe. E dove potrebbe rifugiarsi, poi? Da Gheddafi? Da Putin? Io non credo». Non c'entra la paura di eventuali ritorsioni contro le famiglie che vivono in Iraq, e nemmeno il fatto che la piccola comunità irachena (una ventina a Milano, poco più a Torino) sia ormai perfettamente inserita in una società occidentale, formata com'è da persone colte, laureate, professionisti arrivati in Italia all'epoca della guerra contro l'Iran - come lo scrittore Younis Tawfik - e anche prima, molto prima della dittatura di Saddam Hussein. Hanno paura dei bombardamenti, temono però un futuro americanizzato. Chiedono «più fermezza e più unità all'Europa, che è vecchia e saggia». Sperano che gli Stati Uniti, «unica super potenza al mondo, torni ad essere portatrice di pace». Vivono sintonizzati su Iraq Tv e Al Jazeera, aspettano mesi le lettere (via posta, non via Internet) spedite da padri, madri, fratelli. Quando tornano a Baghdad, vedono cose che non vorrebbero vedere. Uno di loro - che chiede di non essere nominato - racconta: «Sono andato all'Hotel Rashid, a Baghdad, e per entrare nella hall ho dovuto calpestare un enorme ritratto di Bush. Non è possibile evitarlo: il ritratto è posizionato in modo da costringere tutti a calpestare la sua faccia. In seguito mi hanno detto che l'autrice del ritratto è stata uccisa per rappresaglia, durante la guerra del Golfo. Si chiamava baila Al Attar, un missile americano ha centrato la sua casa, una mattina alle sei». Lalla è diventata una martire, e il ritratto di Bush è rimasto al suo posto. Un simbolo d'odio, in un Paese dove «la gente non ha più voglia di vivere, e molti ormai non sanno più cosa significa una vita normale. Venissero in Italia, forse capirebbero che l'occidente ha dei lati positivi. Che qui c'è benessere, libertà, democrazia. Qui si possono avere delle idee, e discuterne senza aver paura di essere ammazzati». In questi giorni di preparativi a la guerra, gli iracheni provano a telefonare a casa «venti, trenta volte al giorno», il più delle volte a vuoto, «perché quello è un Paese dove manca tutto, compresi i pezzi di ricambio delle linee telefoniche», racconta Saeed Wadiee, agronomo, anche lui residente a Milano, sposato con una donna di Novara, e con una figlia che probabilmente non vedrà mai il suo Paese d'origine. Wadiee è presidente della comunità di Milano, ed accanito lettore di quotidiani dove cerca notizie e analizza i commenti sulla politica estera del Paese che lo ha accolto, fresco laureato all'università di Baghdad, per la specializzazione in zootecnia. Sua madre è morta nel 1984, durante un bombardamento aereo. «Morta di paura, non di proiettili. Ma cosa cambia?». Suo padre - che fa l'insegnante - abita ancora vicino alla raffineria di Dorè, alla periferia di Baghdad. «Uno degli obiettivi da colpire, immagino. L'ultima volta che sono riuscito a parlargli mi ha detto che vorrebbe uscire dall'Iraq. Ma per anda¬ re dove? gli ho risposto. In Giordania? E una volta lì? Lo scorso aprile sono andato a trovarlo. Gli ho portato medicine, vestiti, e soldi. Ha bisogno di tutto, anzi tutti hanno bisogno di tutto. L'embargo ha messo l'Iraq in ginocchio». «In ginocchio» non è solo un modo di dire. «Lo strade sono piene di mutilati e di bambini malati. Di madri che chiedono l'elemosina... chiedono che qualcuno curi i loro figli». Nel McDonald's dove incontriamo Wadiee entrano tre donne zingare con bambini piccolissimi al collo. Succede cosi, in Iraq? «Anche peggio, purtroppo. Non ci sono medicine, molte farmacie sono chiuse perché non saprebbero cosa vendere. Perciò mi viene da ridere quando vedo che gli ispettori clell'Onu cercano le armi nucleari! In Iraq manca persino l'aspirina, e nessuno sa curare i malati colpiti dalle bombe radioattive durante la guerra del Golfo». L'embargo «è già la guerra», spiega l'architetto Amid Hason, presidente degli iracheni torinesi. «Ogni giorno muoiono centinaia di civili solo perché non ci sono più medicine. La situazione è così drammatica che se uno deve sottoporsi ad un intervento chirurgico, è meglio che si procuri l'anestetico e se lo porti dietro in ospedale. Se non lo fa, rischia di venire operato senza anestesia». E «in tutto questo c'è un risvolto anche peggiore: l'embargo americano ha costretto il popolo a dipendere strettamente e direttamente dal regime, per ogni necessità», analizza il dottor Albaiaty. «Gli iracheni vivono perché c'è il regime. Senza, morii ebbero di fame ancora più in fretta. Hanno la "carta di assistenza" per il riso, la farina e lo zucchero. Una specie di tessera annonaria, come si usava in Italia durante il fascismo. Ma senza quella si muore di fame. Con quella, almeno si sopravvive». Wadiee, lei cosa pensa di Saddam? «Devo dire che finché è stato vicepresidente, ha lavorato bene. Ha costruito industrie, università, moschee. Il lavoro è molto aumentato, e lui era molto popolare. Pensi che allora era possibile telefonargli direttamente, e anche farsi ricevere. Si viveva bene, c'era armonia. Islamici, ebrei e cristiani, insieme. Io e la mia famiglia lo possiamo testimoniare: siamo cristiani, nessuno ci ha mai perseguitato». E dopo? «Le cose sono cambiate... Ma tornando ad oggi, Saddam è una persona che decide da solo cosa fare. Non accetterebbe mai un esilio volontario, che pure sareb¬ be una soluzione per salvare il Paese, Lui ormai ha fatto un patto con tutti i suoi comandanti: si combatte insieme, o si muore, sempre insieme». Moriranno migliaia di civili, però. «Purtroppo sì. Ma il nostro è un popolo abituato al sacrificio, da sempre. Bombardati da tutte le parti... abituati a vivere di niente». E cosa bisognerebbe fare, secondo lei? «Non attaccare l'Iraq, Mandare avanti gli ispettori Onu, e poi lasciare che siano gli iracheni a decidere il proprio futuro, per costruire una pace duratura». E i suoi parenti, dottor Albaiaty, come si preparano alla guerra? «Ho tre fratelli a Baghdad, Ognuno ha cinque figli, e moltissimi nipoti.,. Hanno fatto provvista di acqua, farina e pane. Hanno deciso che quando comincerà l'attacco, si raduneranno in un angolo della casa, tutti. Così, se debbono morire, moriranno insieme». Hanno preparato un rifugio sotterraneo? «Non esistono bunker, a Baghdad. Non abbiamo nemmeno le cantine, perché non si usano. Aspetteranno la morte, ecco. Sperando nel risveglio delle coscienze degli uomini,,.». E lei, ci spera? «Certo, ma vedo che l'uomo è barbaro. E le dico un'altra cosa: dopo i bombardamenti, anche gli oppositori del regime saranno scontenti e delusi. Laggiù c'è un malcontento generale, che Saddam, con la sua polizia e i suoi servizi segreti, stenta a contenere. Ma dopo, dopo i morti, i feriti, i mutilati, dopo sarà anche peggio. Ci sarà una guerra civile, ci sarà il caos». «Chiediamo più fermezza e più unità all'Europa, che è vecchia e saggia Purtroppo si fa troppo poco per la pace Laggiù c'è malcontento generale, che governo e polizia non fermeranno Dopo sarà anche peggio Arriverà la guerra civile, e ci sarà il caos» «Da noi la gente non ha più voglia di vivere e molti non sanno cosa sia un'esistenza normale» «Se i nostri connazionali venissero in Italia, forse intuirebbero che qui ci sono aspetti positivi Che c'è benessere, libertà, democrazia Si possono avere ideeSenza paura di morire» «Sarebbe bellissimo se il Raiss andasse in esilio Ma non lo farà mai, noi lo conosciamo Ha stretto un patto con tutti i suoi comandanti: si combatte insieme o si muore, sempre insieme In ogni caso, dove potrebbe rifugiarsi?» «Sono andato all'Hotel Rashid, a Baghdad, e per entrare nella hall ho dovuto calpestare un enorme ritratto di Bush. Non c'è modo di evitarlo: è posizionato in modo da costringere tutti a calpestare quella faccia» L'hotelRashld, a Baghdad, dove per entrare nellahall bisogna calpestare un enorme ritratto di Bush /L,- -,; m ^S