Democrazia in Iraq? Intanto liberiamoci di Saddam di Aldo Rizzo
Democrazia in Iraq? Intanto liberiamoci di Saddam OSSERVATORIO Democrazia in Iraq? Intanto liberiamoci di Saddam Ma sarebbe meglio non fare la guerra, esercitando una pressione che per il Rais diventi intollerabile: in tal caso il «circolo virtuoso» in Medio Oriente, e in generale nell'Islam, ne guadagnerebbe Aldo Rizzo UN collega inglese, nell'ambito di un'inchiesta fra i commentatori di vari paesi europei, mi ha chiesto se condividessi la tesi diffusa in America, almeno a livello ufficiale, secondo cui la vittoria militare su Saddam Hussein avrebbe l'effetto di portare la democrazia in Iraq e d'incoraggiarne lo sviluppo in tutto il Medio Oriente; e se pensassi che un simile argomento ha peso nel giudizio della classe politica e dell'opinione pubblica italiana. Mi ha subito informato che, in Francia, tutto questo era stato definito da qualcuno «ridicolo». Ho risposto che a me non sembrava ridicolo, ma certamente molto ottimistico. E in¬ fatti: le probabilità che in un paese complesso e diviso come l'Iraq, privo di tradizioni democratiche, possa instaurarsi in un tempo prevedibile un regime di tipo occidentale sono inferiori a quelle di una fase lunga e confusa di transizione, per tacere del pericolo che il medesimo Paese esploda in una serie incontrollabile di risse politiche ed etnico-religiose. Quanto al contagio democratico (il «circolo virtuoso», diceva il collega britannico) nell'area circostante, difficile immaginarlo in Arabia Saudita o in Siria, forse qualcosa in Giordania e in Iran, dove già sono in atto processi laboriosi di modernizzazione, a prescindere dall' Iraq. Infine, per ciò che riguarda l'Italia, era ed è mia impressione che nei giudizi sulla crisi pesi soprattutto l'alleanza «comunque» con l'America, per il governo, e il dire no «comunque» al governo, per l'opposizione. Fatte salve le consuete eccezioni. Poi ho letto il saggio di apertura del nuovo numero di Foreign Affairs, di Fouad Ajami, professore di «studi sul Medio Oriente» alla Johns Hopkins University. In sintesi, dice Ajami che il primo impatto sul mondo arabo e islamico di un attacco all'Iraq sarà fortemente negativo, l'attacco sarà visto come una «spedizione imperiale», un tentativo di «ricolonizzazione», il che metterà in grave imbarazzo i governi moderati, più o meno apertamente schierati contro Saddam. Ma, aggiunge lo studioso, l'impatto può essere controllato e ridimensionato, anche ai danni delle frange più estremiste, se questa volta l'America si comporterà diversamente che nel 1991, cioè andando a fondo nella sua azione e, nello stesso tempo, pianificando con accor- tezza e pazienza il «seguito» politico del successo militare. Ajami cita un precedente di grande peso, il Giappone del 1945, dove fu possibile, dopo la disfatta della classe militare, trasformare un paese succubo o compenetrato in un autoritarismo nazionalista in una democrazia tendenzialmente pacifista, addirittura. Riconosce tuttavia che il Giappone, a differenza dell'Iraq, era un paese unito, senza divisioni etnico-religiose. Resto dell'opinione che si tratti di visioni ottimistiche, non infondate, e tanto meno ridicole, ma bisognose di una verifica, che sarà molto difficile. L'obiettivo realistico, visto che ci si è posto il problema, è sbarazzarsi della «bomba Saddam». Meglio se senza guerra, con una pressione che per il Rais diventi intollerabile. In tal caso, anche il «circolo virtuoso» della democrazia in Medio Oriente, e in generale nell'Islam, ne guadagnerebbe. Forse.
Persone citate: Ajami, Fouad Ajami, Johns Hopkins, Meglio, Saddam Hussein
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