Conversando con Mario Praz tra Greta Garbo e Pudovkin

Conversando con Mario Praz tra Greta Garbo e Pudovkin Conversando con Mario Praz tra Greta Garbo e Pudovkin Edoardo Bruno ERA stato un incontro curioso, quasi una sfida, dopo che, una volta imbarcati per Palermo, io e Maurizio Calvesi, che insegnavamo in quella Università, decidemmo di scendere dall'aereo perché ci era sembrato che Mario Praz fosse tra i passeggeri. Lo guardavano tutti con sospetto, questo «diavolo zoppo» che ricordava nei tratti Ferdinand Ledoux, interprete magnifico de la Comédie Frangaise, di un testo di Mauriac intitolato, appunto, Asmodeo, iZ diavolo zoppo e lo temevano forse per il suo satanismo, per i suoi interessi e i suoi studi sul demonismo, sul barocco e il romanticismo, e soprattutto per la sua opera, sicuramente più importante. La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Accettai la sfida, e qualche tempo dopo, a Roma, chiesi a Praz un appuntamento per portargli quel libretto prezioso di estetica cinematografica di Galvano della Volpe, Il verosimile filmico che avevo pubblicato, chiedendogli, dato il coincidente pensiero anticrociano, di occuparsene. Anche se conoscevo la estrema curiosità di Praz per ogni forma d'arte non avrei mai immaginato una così grande competenza sulla storia del cinema, come dimostra lo scritto che mi diede. Futilità e utilità del film che pubblicai nel 1955 su Fiimcritica, unico nella sua vasta produzione, dedicato al cinema, che mi sembra giusto oggi riproporre. Ne racconto in breve l'antefatto. Era passato quasi un anno dalla mia richiesta quando, di ritorno da una edizione del Festival di Venezia, con alcuni amici, me lo trovai, tutto assorto nella lettura, seduto in treno, proprio nel nostro scompartimento; feci finta, per discrezione, di non riconocerlo e lui, forse perché neanche ricordava più la mia fac¬ cia, fece altrettanto. Durante le lunghe ore del viaggio, presi dalla conversazióne sui film visti e facendo qualche divagazione o quiz per tastare la nostra reciproca preparazione e conoscenza della storia del cinema, arrivammo alla stazione di Roma, senza neanche accorgerci che nel frattempo, e con un certo anticipo, «lui» si era eclissato con il suo andare zoppo, incamminandosi per il corridoio. Quale sorpresa quando alcuni giorni dopo ricevetti in redazione, in una busta giallina foderata di grigio, il suo articolo, a suo modo, ma molto a suo modo, recensione del libro di Della Volpe, preceduto da una lunga e imprevedibile, divagazionb che si rifaceva ai nostri discorsi tenuti sul treno ma con un approfondimento e una conoscenza tutta sua. Le conversazioni e le gare sui film rispecchiavano solo in parte quel che avevamo detto, il resto era frutto di una sua precisa ricognizione. Le citazioni degli scritti teorici di Manwell o il costume di Powdermaker, confermavano la sua cura per il dettaglio e la capacità di conoscere e approfondire, coniugando fantasia e erudizione, là dove l'interesse Warburghiano per le Mnemosine, determinava in lui una capacità di memorizzare dati e fatti, a livello scientifico del gusto. FILMCRITIC.A Mario Praz COMPITO arduo e pieno di responsabUità, ma anche affascinante e mollo gradevole, è divenuto quello di comprendere appieno l'arte e la tecnica dei film e i problemi che assillano la loro produzione e la loro presentazione entro una struttura industriale...La forza di un'arte si misura dalle sue opere migliori. Che il film sia un mezzo espressivo bello e ben maturo si dimostra con l'abbondante produzione di opere varie, appassionanti e umane nei vent'anni successivi al 1934... Può il romanzo o il dramma rivaleggiare col film in profondità e in ricchezza di produzione creativa in questi ultimi vent'anni?». Non era strano che, reduce da Venezia dove c'era stalo anche un Festival cmemalografico che s'era chiuso la sera prima, io mi fossi preso da leggere in treno The Film and the Public di Roger Manwell uscito quest'anno nei Penguin Books; ma era strano, se mai, che parallelamente all'esaltazione del film come grande arte, e alle acute analisi di spettacoli e di attori che io stavo leggendo nel libro, si svolgesse sotto i miei occhi e, quel che era peggio, alla portata dei miei orecchi, una conversazione il cui rapporto con la mia lettura era quello d'un assordante vocio di demoni col tentativo di un religioso di concentrarsi nel suo breviario. Erano sahti a Venezia e avevano invaso il vagone, e già questo mi aveva indisposto; a Bologna, poi, l'avevano riempito dei mangerecci effluvi di quei cestmi che, gustosi quanto si voglia per chi li consuma, son tutto il contrario per chi sta a guardare; ma insomma fino al calar della sera erano stati più o meno tranquilli; uno, quello rossiccio e dalle guance profondamente solcate, dall'aspetto d'un simpatico evaso dalle galere, s'era distratto facendo la corte a varie stelline nei compartimenti confinanti (una gli aveva detto: «Voialtri giornalisti viaggiate sempre, io, invoce, basta che chiuda gli occhi e sono a Madrid», frase che egli ripeteva ai compagni sghignazzando); un altro, pasciuto, oleoso e peloso come un nababbo, aveva ammazzato il tempo facendo calcoli e schizzi su uno scartafaccio; il terzo, che non era scamiciato come gli altri, anzi attillato in un vestitino di buon taglio, e languido e pavido delle correnti d'aria (infatti era caduto anche lui vittima di quella influenzina che aveva fatto maliziosamente applicare alla Venezia dell'estate 1955 il verso di Arnaldo Fusinato per la Venezia dell'estate 1849: «il morbo infuria...»), s'era limitato a sonnecchiare. Ma con il calar della sera, non so che diavolo li prendesse, o chi di loro cominciasse, ma a un tratto mi trovai in mezzo a una gara di cultura cinematografica, a un fuoco di fila di domande con le quali il nababbo cercava di fulminare il malatino, e il maialino a sua volta, riscossosi dal torpore e diventato lucido e meticoloso come un aguzzino cinese, cercava d'inchiodare il nababbo; quanto all'uomo dalla simpatica faccia patibolare, avrebbe voluto interloquire anche lui qualche volta, ma allora gli altri gli puntavano addosso le loro artiglierie, e quello doveva battere in precipitosa ritirata. «Un film di Lon Chaney dedicato ai marìnes. Come si chiamava e chi l'ha prodotto?», chiedeva il nababbo, e il suo gran naso curvo e sudato, dalle alette arricciate, incombeva aggressivo sull'avversario. Questo, preciso come un primo della classe, rispondeva senza esitare: (dfanti del mare, regia di George Hill, Metro-Goldwyn-Mayer». E a sua volta egli chiedeva: «Un film interpretato di Shirley Tempie dove la coppia era impersonata da Gloria Stewart e John Boles, Un piccolo film, di carattere parrocchiale. Me lo ricordo bene, perché allora ero ragazzo e la famiglia mi mandava a vedere film di carattere educativo». Il nababbo si confonde, confessa di non sapere, {(Angelo di Paradiso», dichiara gelido l'esaminatore, «C'è un film messicano - interroga ora il nababbo -, rifatto con Bette Davis; come si chiamavano i due film?», ^tone and Life, e il messicano, con Dolores del Rio, La otra, regia di Gavaldon», risponde il mingherlino come leggesse nomi stampati nell'aria, visibili a lui solo, «Come si chiamava il protagonista di Costa Diva di Carmine Gallone? Era quel siciliano, quello studente che poi finì nella miseria..,». Anche qui il mingherlino ricorda: «L'ho visto da bambino con mio padre. Dietro di noi c'era Galeazzo Ciano, e per poco non successe un tafferuglio perché mio padre non approvava Martha Eggerth. Quel protagonista aveva un nome di due sillabe e un cognome di tre... non me lo posso ricordare». «Sandro Palmieri», squilla il nababbo. Il mingherlino: «La protagonista di J860diBlasetti: nomeecognome bisillabi, «Aida BelUa, che poi si dedicò ad altra professione», «Chi era il doppiatore anteguerra di Gary Cooper?», riprende il nababbo. «De Angelis?». «No». «Cigoli?». «No. Oggi non fa più il doppiatore. Lavora per la televisione. Romolo Costa. Adesso te». «Chi è la moglie di Claudio Villa?». «Miranda Bonazza», «Come si chiamava Greta Garbo?», L'uomo dalla simpatica faccia patibolare a questo punto salta su per suggerire al mingherlino: «Jedson», «No, Gustafsson; seppellisciti, vergogna!». «Da un famoso romanzo americano dell'Ottocento un famoso regista svedese ha tratto un film». «La lettera scarlatta». «Chi era il regista?». «Sjòstròm. Interpretato da Lilian Gish». «Del romanzo Jane Eyre hanno fatto due edizioni: chi erano i protagonisti della prima? Risale al '37, Sottotitolo: Il romanzo di una istitutrice)). «Virginia Bruca e Collin Clav», «Un film muto di Lupu Pick reinterpretato da una grande attrice inglese: si trova in tutte le storie del cinema». «Sylvester con Elisabeth Bergner». «Uno dei primi film parlati della Cines, sull'ambiente del cinema. Chi era il regista?». «Aspetta, eh! La protagonista è una giovane attrice,,. La stella del cinema, con Grazia del Rio, diretta da De Liguoro». «Mario Ferrari e Lina Solari hanno interpre¬ tato insieme un film interessante. D'ambiente siciliano. Che film era, chi era il regista? Di circa il 1948». «Terra di nessuno, di Mario Baffico». «Titolo e regia di un film tratto da una commedia o una novella di Rosso di San Secondo», vien chiesto a un certo punto all'uomo dalla simpatica faccia patibolare che si agita come uno scolaretto quando alza la mano per essere interrogato e far bella figura. Ma resta muto. (da scalai», squilla la voce metallica e penetrante del nababbo. «E' rimasto come un baccalà!», conclude guardandolo con commiserazione e aggiunge: «Fai una domanda e noi ti polverizziamo. Io e Pasinetti inchiodavamo i registi. Pudovkin non ricordava niente dei suoi film; noi la sapevamo più lunga di lui su lui stesso». Poi riprendeva la gara delle venti domande, come la chiamavano. Un altro viaggiatore del nostro compartimento s'era rifugiato da un pezzo nel corridoio, sebbene questo, che pure era di prima classe. fosse ingombro, come al solito, di valigie e di passeggeri di altre classi. Io non me la sentivo di stare in piedi, e scontavo in quella doccia forzata di cultura cinematografica le mie colpe di professore. Fino allora avevo ingenuamente creduto che la pignoleria, l'insistenza sulle quisquilie, fossero proprie di noi professori. Un mio collega era diventato proverbiale tra gli studenti (che l'avrebbero linciato volentieri) per le sue domande a tranello e a catena, o su un particolare recondito della vita di scrittori di secondo piano, se fossero stati ammogliati e con chi, se avessero avuto titoli accademici, e quali: e simili. Ma ora mi accorgevo che i cineasti ci battevano, che tenevano schedari peggio di noi, che si accanivano su opere dimenticate e di nessuna importanza. «Lon Chaney faceva il cinese in un film tratto da un romanzo di Dekobra». «Mister Wu, tratto dall'Ombra della pagoda». «Un film danese dove c'era un bambino col nome di un pittore olandese». «Gerrit Van der Velde», «Chi ha fatto Un giorno nella vita?... (Silenzio dell'interrogato). Allora sparati!». «Un film ungherese con un bambino che viene in Italia». Mirka il monello». «Un film olandese famoso negli annali della mostra di Venezia, quando era nel giardino dell'Excelsior. La gente si menò». ((Acqua marta di Rutten». «Chi era la figlia di Stella Dallas seconda edizione? Una che dicevano una grande promessa che poi si è concretata solo in parte». ((Ann Shirley». «Jean Renoir ebbe una parte in un film fatto da lui stesso». ((La Marseillaiseh, prorompe il simpatico galeotto evaso, sicuro finalmente d'imbroccarne una. «Non mi abbasso a correggerti...», «La bestia umana», dichiara elegantemente il mingherlino. «Sei formidabile, ce ne sono pochi come te». «Fin da piccolo tenevo uno schedario. Non sono forte nei film tedeschi, ma per gli altri.,,». E io vedevo questo erudito in erba registrare religiosamente tutti i dati dei film di cui veniva a conoscenza, anche i meno importanti, come se si fosse trattato di cose serie, serissime, di quelle per cui noi professori abbiamo un culto. Non ero ancora riuscito a superare l'impressione di stupore e di disgusto ricevuta vedendo girare un film. Attori che parlano al vento, senza la calda simpatia del pubblico, ma sotto l'occhio freddo o ironico di direttori, e di operatori più preoccupati di studiare un effetto di luce o un particolare di arredamento che la loro recitazione; episodi girati a pezzetti senza contmuità, e ogni pezzetto ripetuto venti, quaranta volte, finché non riesca soddisfacente e pronto a far parte di quei laborioso mosaico che sarà il film: quell'atmosfera ansiosa e snervante da sala da gioco, insieme tesa e rilassata, quel complesso di trovate, di confusione, d'improvvisazione, di compromessi tra discordanti punti di vista, e di compromessi con la censura, di commercialismo, di standardizzazione, di disprezzo e reciproca sfiducia tra collaboratori, e infine di puro e fehce caso, che la sociologa Hortense Powdermaker ha studiato in Hollywood, the Dream Factory (Hollywood, la fabbrica dei sogni. Boston 1950), come poteva tutto ciò e, a parte tutto, il fatto stesso della collaborazione o meglio contaminazione multipla, di mélange adultere de tout, creare capolavori degni di formare il tema di una storia non meno seria della storia di qualunque altra arte? Eppure ciascuno di noi ha visto film che non ha esitato a definire capolavori. Li ha rivisti, e l'impressione non si è mutata, e non è stata diversa di quella provata rileggendo a distanza di anni un'opera poetica. Come statue che sembrano di materia nobile, e sono imbottite di stracci. Si finisce per domandarsi se questo non sia il caso d'ogni capolavoro, e se il torto sia soltanto della critica romantica che crede nell'intuizione pura e s'incaponisce a sceverare poesia e non poesia. Il cinema è come la mammella della balia gigante dei Racconti di Gulliver, un banco di prova che può far naufragare l'estetica crociana, come ha dimostrato Galvano della Volpe nel suo libretto sul Verosimile filmico; il montaggio dei film ci fa dubitare, come la mammella della gigantessa faceva riflettere Swift, se anche la bella camagione di quelle signore che sono le tradizionali muse non sembri così bella solo perché lì non abbiamo modo d'accostare la lente d'ingrandimento, ovvero, ogni volta che un critico cerca di farlo, lo cacciamo indignati dal tempio (come capitava ai ricercatori di fonti di D'Annunzio, molte delle cui opere e non è il solo! - sono «montaggi» come quelli dei film). Se le minuzie della nascita di un'opera d'arte ci fossero note come il montaggio di un film, quante epidermidi lisce e bianche ci apparirebbero ruvide, scabre e di brutto colore ! Greta Garbo in una scena del *ilm «Non tradirmi con me» di George Cukor, 1941. Sotto, Mario Praz: il suo scritto sul cinema uscì nel 1955 Un raro scritto del grande saggista, uscito nel 1955 su «Filmcritica», l'unico da lui dedicato al cinema, l'occasione per far naufragare l'estetica crociana