Berlusconi: persecuzione politica i giudici non decidono sul governo

Berlusconi: persecuzione politica i giudici non decidono sul governo LA REPLICA DEL PREMIER NELLA STESSA STANZA DOVE ANNUNCIO' LA DISCESA IN CAMPO Berlusconi: persecuzione politica i giudici non decidono sul governo «L'esecutivo lo indica il popolo, e io sono qui per rispondere soltanto agli elettori non a chi indossa la toga perché ha vinto un concorso: lui deve applicare la legge» Ugo Magri ROMA Anche se lo condannano, lui a dimettersi non ci pensa nemmeno. «Farò fino in fondo il mio dovere di presidente del Consiglio», annuncia Silvio Berlusconi con il pensiero rivolto alla sentenza che lo attende tra qualche mese a Milano sul lodo Mondadori. «Fino in fondo», ripete per chi non avesse colto la sfumatura. L'opposizione, e perfino il Capo dello Stato, non si azzardino a chiedergli un passo indietro, come fece sette anni fa Oscar Luigi Scalfaro dopo il celebre avviso di garanzia. Stavolta il premier reagirebbe con le stesse parole usate nel messaggio concepito di prima mattina insieme con Gianni Letta e Paolo Bonaiuti, registrato più tardi ad Arcore dal suo operatore di fiducia e subito diffuso nell'etere via tigì: «C'è qualcosa che non appartiene all'imputato Berlusconi e nemmeno al presidente del Consiglio Berlusconi. Questo qualcosa è il mandato degli elettori a governare». Io «non li tradirò mai», promette il premier inquadrato dalla telecamera, stessa libreria a far da sfondo qhe aveva scelto;nel '94 per annunciare la sua discesa in campo, abito color pece e volto aggrondato di chi si sente vittima dell'ennesima «incredibile persecuzione'giudiziaria». Che il day-after della Cassazione sia anche il giorno dell'ira, lo si percepisce già dalle battute scambiate coi cronisti prima di registrare il messaggio. «Non è dignitoso che un presidente del Consiglio si presenti al mondo come imputato», vibra la voce del Cavaliere in partenza per Londra, Washington e Mosca. Che figura faremmo tutti quanti, se la condanna al capo del governo piovesse nel bel mezzo del semestre italiano di presidenza europea... I processi dove il premier viene chiamato in causa sarebbe dunque «opportuno sospenderli, come capita in tutti i paesi». Oltretutto, esplode Berlusconi, «se deve difendersi non ha il tempo di governare». E viceversa: «Io ho lasciato tutto in mano ai miei avvocati, ma se fossi lì, hai voglia di come andrebbero le cose in maniera diversa! Interverrei in maniera più precisa ed efficace». Gli aveva pronosticato ben altro esito, la centuria di legali di cui si circonda, alla vigilia della Cassazione. Un clima di ingiustificata euforia s'era diffuso nei palazzi romani. E per quanto lui fosse asserragliato nel bunker di villa La Certosa, al premier era giunto l'eco del lavorio svolto ai piani alti delle istituzioni per spedire il processo a Brescia... Logico che alla fine si sia sentito in parte deluso e per l'altra parte ingannato da chi gli aveva fatto pregustare un esito diverso. La fiducia berlusconiana nelle cosiddette mediazioni istituzionali, condotte in suo nome nelle più alte sfere pubbliche, è precipitata ora al suo punto più basso. «Lo scenario da questo momento cambia completamente», anticipano i fedelissimi del premier. Basta coi minuetti, fine del dialogo sulle riforme e della mano tesa all'opposizione, taglio netto con le politiche conciliatrici patrocinate dal Colle. Il messaggio di ieri marca il cambio di strategia. C'è dentro tutto ciò che a Ciampi (e ai centristi) non garba: l'attacco sprezzante contro la «magistratura giacobina di sinistra» e le «correnti politicizzate» che «giusto dieci anni fa, imposero a un Parlamento intimidito e condizionato, un cambiamento della Costituzione del 1948 che ha messo nelle loro mani il potere di decidere al posto degli elettori». C'è l'impennata di chi si proclama onesto («Continuerò a «Oggi sono in gioco i principi della Costituzione, della divisione dei poteri e il funzionamento delle istituzioni che nel Paese hanno garantito l'alternanza» difendermi nella certezza, limpida orgogliosa e serena, di non aver commesso reati») e la promessa minacciosa di drastiche riforme invise ai giudici («Questa situazione va corretta per il bene «Non tradirò il mandato Da quando sono sceso in campo sono stato vittima di una inaudita catena di inchieste giudiziarie segnate da prevenzione ostilità e accanimento» del paese»). C'è l'anticipazione di qualche ritorsione futura contro le «toghe rosse» («In una democrazia liberale la magistratura non si giudica da sé e non si autoassolve in ogni sede disciplinare, penale e civile, come avviene oggi in Italia»), ma soprattutto c'è nel messaggio del premier l'appello all'articolo 1 della Costituzione: «Il governo è del popolo e di chi lo rappresenta, non di chi avendo vinto un concorso ha indossato una toga, ha soltanto il compito di applicare la legge». Dalla sovranità del popolo all'appello al popolo il passo è breve. La boutade di Bossi che chiede di andare alle urne ove Berlusconi dovesse dimettersi, non è in contraddizione con la voglia del premier di restare al posto suo. «Dicono entrambi la stessa cosa», assicura chi fa da ponte fra i due, «solo che Umberto spinge un, tantino più avanti il ragionamento». Il fantasma da esorcizzare è il bis di un governo Dini, la clava da agitare è quella di elezioni che coglierebbero la sinistra ancora sospesa fra Cofferati e D'Alema.

Luoghi citati: Arcore, Brescia, Italia, Londra, Milano, Mosca, Roma, Washington