«La globalizzazione sarà più forte dei conflitti»

«La globalizzazione sarà più forte dei conflitti» IL DOCENTE AD HARVARD DAN» RODRIK «La globalizzazione sarà più forte dei conflitti» intervista dall'inviato a DAVOS UNA guerra per il petrolio? Sì, trovo che il petrolio sia un movente significativo nella questione irachena»: Dani Rodrik, economista di 46 anni, professore alla John Kennedy School of government di Harvard, luogo classico di formazione della classe dirigente americana, è stato uno dei primi critici della globalizzazione. «Come ha sostenuto Tom Friedman - dice - sa, l'opinionista del New York Times...)) Friedman sostiene che la vera causa è il petrolio ma che la guerra all'Iraq bisogna farla, per garantire il futuro del pianeta. «Personalmente sono più d'accordo con la prima parte della sua affermazione che con la seconda. Spero che esistano vie per assicurare la caduta di Saddam Hussein senza una guerra. Contrariamente ad altri americani, comprendo la posizione della Germania». Chiariamo meglio. Perché secondo lei, come economista, il petrolio è un movente significativo? «Se non si tratta di petrolio, è difficile immaginare perché quell'area del mondo sia tanto importante nelle strategie degli Stati Uniti. Ma non sostengo che sia il fattore esclusivo: attribuirei grosso modo una uguale importanza all'ambizione di George W. Bush di portare a termine l'opera lasciata incompiuta da suo padre». Molti esponenti del mondo degli affari qui a Davos temono gli effetti di una guerra sull'economia. Nella ipotesi peggiore, di una guerra lunga, è possibile addirittura immaginare una recessione mondiale profonda, tale da fermare almeno per un certo tempo il processo di globalizzazione? «No. Se gli Usa si impantanas¬ sero in una guerra lunga le conseguenze negative sull' economia sarebbero pesanti, ed è difficile prevederle. Ma l'ipotesi di un sostanziale arretramento della globalizzazione mi pare assai remota». Abbiamo già il commercio internazionale che non cresce, gli investimenti nei paesi emergenti in ritirata. «Sono fenomeni ciclici. Non si può valutare un processo complesso soltanto dall'andamento di queste cifre». Sei anni fa lei scrisse un saggio che aveva come titolo: «La globalizzazione è andata troppo in là?». Quello che accaduto negli ultimi anni le pare confermi le sue critiche? «Sì. Non c'è alcuna prova che una rapida liberalizzazione economica sia la ricetta valida ovunque per realizzare una crescita economica nei Paesi poveri. Se negli ultimi anni la povertà nel mondo si è ridotta, è grazie alla crescita di due Paesi immensi come la Cina e l'India, ciascuno dei quali si è aperto con gradualità, globalizzando a modo suo. Altri Paesi ora stanno avendo successo con strumenti propri, perfino il Vietnam. E' sciocco proclamarsi contro la globalizzazione. E' un processo importante, che può dare buoni frutti; ma la ricetta migliore è forse un misto delle pratiche ortodosse fin qui sostenute in Occidente e di pratiche eterodosse». Oggi, dopo varie crisi, è cambiato qualcosa nella globalizzazione? «Di sicuro è cambiato il modo in cui se ne discute, come è evidente qui a Davos. Riduzione della povertà, di sviluppo, di tutela della salute, diventano le questioni più in vista; ed è una buona cosa. E' a questi scopi che la globalizzazione deve servire. Non si sarebbe ottenuto questo mutamento di visuale senza la mobilitazione della società civile negli anni scorsi. Ma ora occorre che alle parole seguano! fatti». [s.l.]

Persone citate: Dani Rodrik, Friedman, George W. Bush, John Kennedy, Saddam Hussein, Tom Friedman

Luoghi citati: Cina, Germania, India, Iraq, Stati Uniti, Usa, Vietnam