Il nonno come modello di crescita industriale di Alberto Papuzzi

Il nonno come modello di crescita industriale IL SENATORE AGNELLI LO CHIAMO' NEL CONSIGLIO D'AMMINISTRAZIONE A VENTIDUE ANNI Il nonno come modello di crescita industriale Il principale obiettivo dell'Avvocato fu l'allargamento dei «confini» dell'attività aziendale Dagli accordi perTogliattigrad alle collaborazioni internazionali alle prime fabbriche al Sud Alberto Papuzzi QUANDO l'Avvocato lascia, nel 1997, gli uffici di corso Marconi e fa ritomo nella palazzina di Lingotto, trasferendosi nel ricostruito ufficio del nonno, coi suoi quadri e la sua scrivania, e le stesse vetrate da dove lasciar correre lo sguardo sulla stessa Torino, è come se volesse ricucire la storia e realizzare l'utopia di far rivivere la figura del fondatore della grande azienda, e persino tornare indietro nel tempo, come lui stesso racconta in un'intervista: «Al Lingotto, il primo grande stabilimento automobilistico della Fiat, nato nel '23 e dunque due anni più giovane di me, io scoprivo la fabbrica proprio come Charlie Chaplin in Tempi moderni aveva descritto il fordismo. Venivo a trovare mio nonno nell'ufficio del secondo piano con i fili telefonici che calavano dal soffitto e le pareti tappezzate di mappe geografiche, perché la Fiat era già in mezzo mondo». Lo storico modello su cui l'Avvocato ha misurato la sua figura d'imprenditore è il nonno, amatissimo, il vecchio senatore, che era andato in America per fare come Ford, che si era confrontato con l'occupazione delle fabbriche, che aveva difeso l'azienda dal fascismo e che nel febbraio del 1943, due anni prima di morire, aveva chiamato a far parte del consiglio d'amministrazione il nipote prediletto. Reduce dall'esperienza bellica nella campagna di Russia e nella guerra d'Africa, il giovane Agnelli aveva partecipato, da vice presidente, a decisioni vitali, come gli incontri agli inizi del 1946 con i partiti del Cln per decidere il ritomo alla normalità negli stabilimenti e la reintegrazione di Valletta (dopo le vicende del processo di epurazione). Il giorno della verità arriverà il 30 aprile 1966 quando l'assemblea degli azionisti della Fiat approva la nomina a presidente di Gianni Agnelli al posto di Vittorio Valletta, decisa alla vigilia. Il cambio della guardia è comunicato dal presidente uscente con un annuncio famoso per laconicità: «Da oggi il dottor Agnelli non è più soltanto il nipote di suo nonno». Da quattro anni l'Italia era governata dal Centrosinistra, a dicembre si era chiuso il Concilio Vaticano II, la Mondadori manda in libreria gli Oscar, la motorizzazione di massa è già avvenuta, il paese si lascia alle spalle il passaggio dall'economia agricola alla modernizzazione industriale, mentre si avvertono crepitìi della contestazione studentesca e dell'autunno caldo. Nel suo discorso agli azionisti. Agnelli, che aveva allora 45 anni, rende omaggio all'operato di Valletta con parole che fotografano ciò che la Fiat ha rappresentato nei primi vent'anni della storia repubbhcana: «Il suo temperamento, le sue caratteristiche di lottatore, la sua volontà, la sua pertinacia, hanno fatto di lui il simbolo del lavoro Fiat». L'opera di Valletta e il «lavoro Fiat» si rispecchiano nella buona salute dell'azienda. I dipendenti sono 140 mila, concentrati nelle fabbriche di Torino. Una gran parte sono arrivati dalle regioni meridionali, nell'alveo d'una gigantesca migrazione intema da Sud a Nord, dalle campagne all'industria, che ha mutato i caratteri sociaU e culturali del nostro paese, in uno sforzo collettivo senza pari. La Fiat fa di Torino un grande polo di attrazione dove gli emigranti s'incontrano con una classe operaia dalle storiche tradizioni. Ma l'Avvocato guarda oltre la linea tracciata dal Professore. Vuole fare per la Fiat ciò che a suo tempo aveva fatto il Senatore. Non dubita che sia il momento di una svolta storica, nelle prospettive e negli uomini. Lo storico Castronovo ha rivelato che Valletta pensava ancora a una fase di transizione, con una gestione manageriale di Gaudenzio Bono, un uomo passato da operaio a direttore, come solo un tempo accadeva. Ma in un faccia a faccia. Agnelli spiegò al Professore come fosse necessaria un pò d'aria fresca e che era deciso ad assumersi le sue responsabilità «senza più indugio». Nel nonno, il nipote vede la capacità di precorrere i tempi, di saper cogliere le opportunità offerte dalle condizioni socio economiche e dallo sviluppo tecnologico non in funzione meramente di un profitto ma in funzione di una strategia d'impresa, trapiantando dall'America in Europa il sistema della produzione di massa. Non è difficile riconoscere significative analogie tra l'epoca in cui il senatore Agnelli progetta la Fiat come una grande azienda in grado di fare propri i processi di modemizzazione del decollo industriale (dalla produzione in serie al sistema tayloristico) e gli anni in cui, dopo il miracolo economico italiano, la pohtica dei governi di centrosinistra e l'aumento dei consumi prò capite creano le condizioni per un capitahsmo riformista. Sia nonno sia nipote devono anche fare i conti con pesanti tensioni di natura sindacale: il biennio rosso e l'occupazione delle fabbriche nel caso del Senatore, l'autunno caldo e le contestazioni operaie nel caso dell'Avvocato. A mezzo secolo di distanza, pur con le debite differenze, l'uno e l'altro sembrano fare in un certo senso le medesime scelte: grande capacità di mediazione e riconoscimento delle leadership sindacali, corresponsabilizzazione delle maestranze sul futuro dell'azienda, fino alla cessione della gestione dei conflitti a manager di fiducia (Valletta e Romiti). L'immagine pubbUca di Gian: ni Agnelli quando esordisce alla guida dell'azienda è ancora quella del plurimiliardario giramondo, protagonista della mondanità, ma le sue mosse sono destinate a far cambiare opinione agli osservatori: da un lato stabilisce un rapporto di fiducia con Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca (che non era invece nelle simpatie vallettiane), e attraverso lui una ferrea alleanza con la Lazard Brothers, grande merchant bank intemazionale; dall'altro ispira la propria politica imprenditoriale all;eredità ideale del kennedysmo, al suo slancio riformatore, alla sua fiducia nelle nuove generazioni, fin dal «discorso della corona» che tiene il 20 maggio 1966 a Villar Perosa, davanti all'intero management del gruppo. L'intesa con Cuccia che dirà di lui: «Mi è subito piaciuto perché tutto gli stava stretto, Torino, l'Italia...» - produce il risultato di una stabilità patrimoniale, grazie all'allargamento e consohdamento della base finanziaria dell'Ifi, la cassaforte di famiglia. I primi dieci anni di presidenza mettono già in luce le nervature del disegno che Agnelli concepisce per la Fiat. Innanzi tutto la dimensione intemazionale sia per la produzione sia per i mercati, dopo che Valletta aveva varato l'accordo per Togliattigrad: (Argentina, Turchia, Polonia le principali direttrici di espansione). Quindi gli investimenti al Sud, in linea con la politica del centrosinistra (Cassino, Termoli, Sulmona, Lecce, Bari, Brindisi), acquisizioni in Italia (Lancia e Abarth) e joint-venture (Alis Chalmers) o collaborazioni all' estero (Mitsubishi e Citroen). Diversificazione delle attività (Sorin Biomedica, Ferroviaria Savigliano, Aeritalia, Ventana). Rinnovamento tecnologico: nel '73 lo stabilimento di Crescentino per la ghisa è considerato il più moderno del mondo, mentre tra il '74 e il '76 si installano a Mirafiori e Cassino i primi robot e viene istituito il Centro Ricerche. Contemporaneamente, a partire dal '66, si dà impulso alla fioritura d'una cultura industriale, a partire dal 1966 con la nascita della Fondazione intitolata al senatore Giovanni Agnelli, sul modello delle istituzioni culturali private dei Ford e dei Rockefeller. Infine la riorganizzazione della struttura aziendale, e il rinnovamento degli uomini che devono dirigerla: Umberto Agnelli dal gennaio del '68 affianca il fratello nella conduzione dell'azienda, mentre nel '74 arriva, come direttore centrale. Cesare Romiti, che sarà poi protagonista, accanto all'Avvocato, di un quarto di secolo di vita della Fiat, fino al 1998. L'obiettivo è fare della Fiat un gruppo capace di reggere le sfide di un mercato mondiale, che negli anni Settanta si profila con lo sviluppo delle imprese multinazionali. Il marcino Fiat diventa un'immagine del made in Italy molto prima che ad imporlo siano gli stilisti della moda, e lo stesso presidente del gruppo è visto, dall'opinione pubblica, come il nostro migliore ambasciatore. Nello stesso tempo la Fiat è l'industria per antonomasia in Italia: le sue strategie e le sue fortune sono di fatto il termine di confronto perle politiche economiche pubbliche e per i destini del conflitto sociale. E' a Torino che si guarda, nel '69 (autunno caldo), nel '72 (conflittualità permanente), negli anni aspri dell'autonomia operaia e del partito armato, dei cortei negli stabilimenti - «Agnelli l'Indocina ce l'hai in officina» - per capire come finirà la partita fra grande industria, organizzazioni sindacali e protesta operaia. L'idea dell'Avvocato è un'alleanza dei produttori, contro la rendita: imprenditori e operai hanno in realtà gli stessi interessi e dovrebbero far fronte comune contro il paese del parassitismo e degli sprechi. In questa chiave. Agnelli tende a favorire alla Fiat una politica di relazioni sociaU moderata, che privilegi la mediazione, una pohtica che Castronovo ha definito «morotea». Ma quando l'estremismo diventa ingovernabile, da parte delle stesse organizzazioni sindacali, mentre all'esterno cresce la pressione della competitività intemazionale, l'Avvocato deve fare un passo indietro ed è Romiti ad assumersi il peso di decisioni impopolari. «Bisognava ristrutturare, licenziare, tagliare - si leggeva nell'intervista alla Stampa per i cento anni della Fiat -. L'inflazione saliva, la situazione economica continuava a peggiorare, la minaccia terroristica, a Torino e in fabbrica, s'era fatta più forte». Voluta fortemente da Romiti, la marcia dei 40 mila, nell'ottobre 1980, segna, com'è noto, una svolta nella storia della Fiat e in quella d'Italia. Da allora nulla è più stato come prima, nel confronto tra capitale e lavoro e nelle relazioni tra lavoro e sinistra. Ma la svolta diventa anche l'occasione per imprimere all'azienda modifiche, caratteri, ritmo di marcia, piani strategici che siano compatibili con le mutate richieste del mercati intemazionali e della competizione globale. Il successo della Uno, moderna utilitaria interamente prodotta su linee robotizzate (1983), l'acquisizione dell'Alfa, dopo un braccio di ferro con la Ford (1986), gli investimenti in automazione per realizzare il modello della fabbrica integrata, il cui prototipo è lo stabilimento di Melfi, e una nuova cultura d'impresa basata su interazione e autocontrollo a tutti i livelli, sono i cardini di un progetto imprenditoriale. Il progetto che rinnovava un sogno kennedyano. Il richiamo a Kennedy, del quale Agnelli era stato buon amico (come dei Rockefeller e, in seguito, di Kissinger), ripropone il confronto con la cultura nordamericana, che aveva affascinato anche il nonno: «Il problema di Kennedy - dirà Agnelli - era risolvere l'eredità di Eisenhower, il suo grigiore», quasi una metafora del suo problema al top della Fiat. La dimensione intemazionale è stata infatti la cultura dell'Avvocato, con un certo gusto a guardare dal di fuori le anomalie italiane. Come quando (dopo l'uscita di Renato Ruggiero dal governo Berlusconi) a chi gli chiede se non sia una cosa da repubblica delle banane, risponde: «Nel nostro paese, purtroppo, non ci sono nemmeno banane. Ci sono soltanto fichi d'India». Giovanni Agnelli alla presentazione della «Bianchina». In primo piano, Giovanni Battista Pirelli e Vittorio Valletta In un franco faccia a faccia con Valletta, ormai prossimo alla scadenza del suo mandato, l'Avvocato spiegò che intendeva subentragli alla presidenza «senza alcun indugio» Nel '97, quando l'azienda lasciò la sede di corso Marconi, si fece ricostruire l'ufficio con gli stessi arredi e gli stessi quadri che Giovanni senior aveva nella sua stanza. Un modo per far rivivere la figura del fondatore L'Avvocato sulla pista costruita sul tetto del Lingotto. La foto è del 1999, in occasione delle celebrazioni per il centenario dell'azienda Le analogie tra le due epoche, quella del capostipite e quella del nipote, sono molteplici Entrambi dovettero affrontare fasi di grande sviluppo tecnico ed economico e momenti difficili sul piano delle tensioni sociali: dalle occupazioni delle fabbriche degli Anni Venti all'autunno caldo e alle durissime contestazioni operaie di mezzo secolo dopo