«La mia vita insieme alla Fiat» di Alberto Papuzzi

«La mia vita insieme alla Fiat» Alberto Papuzzi Ef il 30 aprile 1966 quando ' l'assemblea degli azionisti della Fiat approva la nomina a presidente di Giovanni Agnelli al posto di Vittorio Valletta, decisa immediatamente il giorno prima dal consiglio di amministrazione. Il cambio della guardia è comunicato dal presidente uscente con un annuncio rimasto famoso per la sua laconicità: «Da oggi il dottor Agnelli non è più soltanto il nipote di suo nonno». Da quattro anni l'Italia era governata dal Centrosinistra, a dicembre si era chiuso il Concilio Vaticano II, l'XI congresso del Pei aveva visto Longo e Amendola imporsi su Ingrao, Il Mondo di Pannunzio aveva appena cessato le pubblicazioni, la Mondadori mandava in libreria gli Oscar, don Milani, il parroco di Barbiana, era stato assolto dall'accusa di apologia di reato per aver difeso l'obiezione di coscienza e quello stesso aprile si era concluso con un'assoluzione il processo al giornalino La Zanzara del liceo milanese Parini. Quando l'Avvocato riceve dal Professore il bastone di comando dell'impresa fondata dal nonno nel 1899, siamo dunque in un paese che vive una profonda trasformazione, prodotta dal boom economico dei primi anni sessanta. Un paese che si lascia alle spalle il lungo cammino per passare dall'economia agricola alla modernizzazione industriale e in cui si avvertono i primi crepitìi del terremoto che si chiamerà contestazione studentesca e autunno caldo. Nel suo discorso agli azionisti. Agnelli, che aveva allora 45 anni, rese omaggio all'operato di Valletta con parole che fotografavano ciò che la Fiat aveva rappresentato nei primi ventanni della storia repubblicana: «Il suo temperamento, le sue caratteristiche di lottatore, la sua volontà, la sua pertinacia, hanno fatto di lui il simbolo del lavoro Fiat». L'opera di Valletta e il «lavoro Fiat.» si rispecchiavano nella buona salute dell'azienda: nel 1966 la Fiat è seconda in Europa fra le case automobilistiche e quinta nel mojado, protagonista d'una crescita vertiginosa, in parallelo con la motorizzazione di massa. Dal 1955-1956 (gli anni'in cui le officine sfornano la 500 e la 600) la produzione passa da 270 mila autovetture a 1.152.000. I dipendenti sono 140 mila, concentrati nelle fabbriche di Torino; Una gran parte sono arrivati dalle regioni meridionali, nell'alveo d'una gigantesca migrazione interna da Sud a Nord, dalle campagne all'industria, che ha mutato i caratteri sociali e culturali del nostro paese, in uno sforzo collettivo senza pari. La presenza della Fiat trasforma Torino in un grande polo di attrazione dove gli emigranti s'incontrano con una classe operaia dalle storiche tradizioni. Dopo una dura fase di sviluppo, anche con pesanti costi sindacali, il successo della Fiat era anche il successo di Torino, come company town, come Detroit italiana. Ma l'Avvocato guarda oltre la linea tracciata dal Professore. Più che Valletta, il suo modello d'imprenditore è il nonno: il senatore Giovanni Agnelli non aveva mai nascosto la predilezione per il nipote e lo aveva chiamato a far parte del consi;lio di amministrazione nel febbraio del 1943, due anni prima della morte. Reduce dall'esperienza bellica nella campagna di Russia e nella guerra d'Africa, il giovane Agnelli aveva partecipato, da vice presidente, a decisioni vitali, come gli incontri agli inizi del 1946 con i partiti del Cln per decidere il ritomo alla normalità negli stabilimenti e la reintegrazione di Valletta (dopo le vicende del processo di epurazione). Infatti in un'intervista per il centenario dell'azienda. Agnelli dirà al direttore della Stampa: «La mia vita coincide per tre quarti con quella della Fiat». Quando nel 1966 l'era Valletta giunge a scadenza, l'Avvocato non dubita che per la Fiat sia il momento di una svolta storica, nelle prospettive e negli uomini. Valerio Castronovo ha raccontato in Fiat. Un secolo di storia italiana come Valletta avesse pensato a un periodo di transizione, ancora con una gestione manageriale affidata a Gaudenzio Bono, un uomo passato da operaio a direttore, come solo un tempo accadeva. Ma in un faccia a faccia. Agnelli gli spiegò come fosse necessaria un pò d'aria fresca. «Valletta lo stette ad ascoltare pazientemente aspettandolo al varco. Ma non gli passava affatto per la testa che alla sua domanda di chi si sarebbe presa la briga di occuparsi di operare simili cam- II giovane Giovanni Agnelli con Valletta, Pirelli e Bianchi alla presentazione della Bianchina IL SENATORE AGNELLI LO CHIAMO' A FAR PARTE DEL CDA NEL 1943. NEL '66 ASSUNSE LA PRESIDENZA DEL GRUPPO «La mia vita insieme alla Fiat» Una fabbrica e un mode o: i nonno fondatore Per la sua successione, Valletta pensava a una fase di transizione con ai vertici Gaudenzio Bono, un ex operaio diventato direttore, ma in un faccia a faccia l'Avvocato gli spiegò che riteneva giusto occuparsi personalmente e «senza indugio» della gestione biamenti, l'Avvocato gli avrebbe risposto che spettava a lui in persona. E senza più indugio». Nei discorsi e nelle interviste, soprattutto degli ultimi dieci anni. Agnelli mostrava una radicata ammirazione per le realizzazioni del Senatore, suo nonno. S'intuiva che lo affascinavano la grandiosità e l'audacia del disegno con cui si era misurato: nell'Italietta di Giolitti fare come nell'America di Ford. Nel modello imprenditoriale impersonificato dal nonno, primeggia la capacità di precorrere i tempi, di saper cogliere le opportunità offerte dalle condizioni socio economiche e dallo sviluppo tecnologico non in funzione meramente di un profitto ma in funzione di una strategia d'impresa: «All'inizio del secolo in Italia c'erano già 61 costruttori di automobili - ha spiegato l'Avvocato nella citata intervista al direttore della Stampa -. Non mancava l'entusiasmo, mancava il mercato. Giovanni Agnelli si propose di costruire il mercato, trapiantando dall'America in Europa il sistema della produzione di massa. La storia della Fiat è soprattutto la storia di questo progetto che punta a espandere produzione e mercato dei mezzi di trasporto: prima l'auto, poi i veicoli industriali, gli aerei, i treni, i motori marini, i trattori agricoli». Non è difficile riconoscere significative analogie tra l'epoca in cui il senatore Agnelli progetta la Fiat come una grande azienda in grado di fare propri i processi di modernizzazione del decollo industriale (dalla produzione in serie al sistema tayloristico) e gli anni in cui, Il successo della Uno interamente prodotta su linee robotizzate l'acquisizione dell'Alfa investimenti in automazione per il modello della fabbrica integrata, il cui prototipo è lo stabilimento di Melfi: una nuova cultura d'impresa basata non più su un sistema di controlli gerarchici ma su interazione e autocontrollo a tutti i livelli dopo il miracolo economico italiano, la politica dei governi di centrosinistra, l'allargamento delle aree di benessere, l'aumento dei consumi prò capite e le nuove tecnologie produttive creano le condizioni per un capitalismo riformista. Sia nonno sia nipote devono anche fare i conti con pesanti tensioni di natura sindacale: il biennio rosso e l'occupazione delle fabbriche nel caso del Senatore, l'autunno caldo e le contestazioni operaie nel caso dell'Avvocato. A mezzo secolo di distanza, pur con le debite differenze, l'uno e l'altro sembrano fare in un certo senso le medesime scelte: grande capacità di mediazione e riconoscimento delle leadership sindacali, corresponsabilizzazione delle maestranze sul futuro dell'azienda, fino alla cessione della gestione dei conflitti a manager di fiducia (Valletta e Romiti). L'immagine pubblica di Gianni Agnelli quando esordisce alla guida dell'azienda è ancora quella del plurimiliardario giramondo, protagonista della mondanità, ma le sue mosse sono destinate a far cambiare opinione agli osservatori: da un lato stabilisce un rapporto di fiducia con Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca (che non era invece nelle simpatie vallettiane), e attraverso lui una ferrea alleanza con la Lazard Brothers, grande merchant bank intemazionale; dall'altro ispira la propria politica imprenditoriale all'eredità ideale del kennedysmo, al suo slancio riformatore, alla sua fiducia nelle nuove generazioni, fin dal «discorso della corona» che tiene il 20 maggio 1966 a Villar Perosa, davanti all'intero Giovanni Agnelli con il presidente Ciampi e la moglie Donna Marella alla celebrazione del centenario della Fiat management del gruppo. L'intesa con Cuccia - che dirà di lui: «Mi è subito piaciuto perché tutto gli stava stretto, Torino, l'Italia...» - produce il risultato di una stabilità patrimoniale, jrazie all'allargamento e consoidamento della base finanziaria dell'Ifi, la cassaforte di famiglia. Il richiamo a Kennedy, del quale Agnelli era stato buon amico (come dei Rockefeller e, in seguito, di Kissinger), riproponeva il confronto con la cultura nordamericana, che aveva affascinato anche il nonno: «Il problema di Kennedy - dirà Agnelli - era risolvere l'eredità di Eisenhower, il suo grigiore», quasi una metafora del suo problema al top della Fiat. I primi dieci anni di presidenza mettono già in luce le nervature del disegno che Agnelli concepisce per la Fiat. Innanzi tutto la dimensione intemazionale sia per la produzione sia per i mercati, dopo che Valletta aveva varato l'accordo per Togliattigrad: (Argentina, Turchia, Polonia le principali direttrici di espansione). Quindi gli investimenti al Sud, in linea con la politica del centrosinistra (Cassi¬ no, Termoli, Sulmona, Lecce, Bari, Brindisi), acquisizioni in Italia (Lancia e Abarth) e jointventure (Alis Chalmers) o collaborazioni all'estero (Mitsubishi e Citroen). Diversificazione delle attività (Sorin Biomedica, Ferroviaria Savigliano, Aeritalia, Ventana). Rinnovamento tecnologico: nel '73 lo stabihmento di Crescentino per la ghisa è considerato il più moderno del mondo, mentre tra il '74 e il '76 si installano a Mirafiori e Cassino i primi robot e viene istituito il Centro Ricerche. Contemporaneamente, a partire dal '66, si dà i i l à impulso alla fioritura d'una cultura industriale, a partire dal 1966 con la nascita della Fondazione intitolata al senatore Giovanni Agnelli, sul modello delle istituzioni culturali private dei Ford e dei Rockefeller. Infine la riorganizzazione della struttura aziendale, e il rinnovamento degli uomini che devono dirigerla: Umberto Agnelli dal gennaio del '68 affianca il fratello nella conduzione dell'azienda, mentre nel '74 arriva, come direttore centrale, Cesare Romiti, che sarà poi protagonista, accanto all'Avvocato, di un quarto di secolo di vita della Fiat, fino al 1998. L'obiettivo dell'Avvocato è fare della Fiat un gruppo capace di reggere le sfide di un mercato mondiale, che negli anni Settanta si profila con lo sviluppo delle imprese multinazionali. Il marchio Fiat diventa un'immagine del made in Italy molto prima che ad imporlo siano gli stilisti della moda, e lo stesso presidente del gruppo è visto, dall'opinione pubblica, come il nostro migliore ambasciatore. Nello stesso tempo la Fiat è l'industria per antonomasia in Italia: le sue strategie e le sue fortune sono di fatto il termine di confronto per le politiche economiche pubbliche e per i destini del conflitto sociale. E' a Torino che si guarda, nel '69 (autunno caldo), nel '72 (conflittualità permanente), negli anni aspri dell'autonomia operaia e del partito armato, dei cortei negh stabilimenti - «Agnelli l'Indocina ce l'hai in officina» - per capire come finirà la partita fra grande industria, organizzazioni sindacali e protesta operaia. Il progetto accarezzato dall'Avvocato e quello di un'alleanza dei produttori, contro la rendita: imprenditori e operai hanno in realtà gli stessi interessi e dovrebbero far fronte comune contro il paese del parassitismo e degli sprechi. In questa chiave. Agnelli tende a favorire alla Fiat una politica di relazioni sociali moderata, che privilegi la mediazione, una politica che Castronovo ha definito «morotea». Ma quando l'estremismo diventa ingovernabile, da parte delle stesse organizzazioni sindacali, mentre all'esterno cresce la pressione della competitività internazionale, l'Avvocato deve fare un passo indietro ed è Romiti ad assumersi il peso di decisioni impopolari. «Bisognava ristrutturare, licenziare, tagliare - si leggeva nell'intervista alla Stampa per i cento anni della Fiat -. L'inflazione saliva, la situazione economica continuava a peggiorare, la minaccia terroristica, a Torino e in fabbrica, s'era fatta più forte». Voluta fortemente da Romiti, la marcia dei 40 mila, nell'ottobre 1980, segna, com'è noto, una svolta neOa storia della Fiat e in quella d'Italia. Da allora nulla è più stato come prima, nel confronto tra capitale e lavoro e nelle relazioni tra lavoro e sinistra. Ma la svolta diventa anche l'occasione per imprimere all'azienda modifiche, caratteri, ritmo di marcia, piani strategici che siano compatibili con le mutate richieste del mercati intemazionali e della competizione globale. Il successo della Uno, moderna utilitaria interamente prodotta su linee robotizzate (1983), l'acquisizione dell'Alfa, dopo un braccio di ferro con la Ford (1986), gli investimenti in automazione per realizzare il modello della fabbrica integrata, il cui prototipo è lo stabilimento di Melfi, e una nuova cultura d'impresa basata non più su un sistema di controlli gerarchici ma su interazione e autocontrollo a tutti i livelli, sono i cardini di un progetto imprenditoriale che rinnovava il sogno kennedyano dell' Avvocato e che manteneva l'automobile nel cuore della Fiat. E Torino restava il caposaldo della Fiat, a dispetto delle predizioni dei profeti di sventura. Perché le trasformazioni dell'impresa che ne ha segnata la storia per un secolo sono andate di pari passo con le trasformazioni della città, non più company town, non più Detroit italiana, bensì metropoli capace di articolarsi in un prossimo futuro - in poli diversi, tuttavia ancorata al destino dell'ammiraglia del capitalismo italiano per ragioni culturali e per tradizione storica, prima ancora forse che per ragioni economiche e industriali. Non è un caso che l'Avvocato negh ultimi anni, messa l'azienda nelle mani di Paolo Fresco e dell'ingegner Cantarella, avesse rafforzato anche fisicamente e visivamente il rapporto mai interrotto con la storia della Fiat e la memoria del Senatore, ritomando da corso Marconi nella palazzina del Lingotto, e trasferendosi nel ricostruito ufficio del nonno, coi suoi quadri e la sua scrivania. Da dove lasciar correre lo sguardo, dalle stesse finestre, sulla stessa Torino. 1921 2003