«IN UFFICIO LAVORAVAMO COL CAPPOTTO...»

«IN UFFICIO LAVORAVAMO COL CAPPOTTO...» «IN UFFICIO LAVORAVAMO COL CAPPOTTO...» Un piccolo flash della torinese Bruna Bruno, sulla vita quotidiana in tempo di guerra. Roba dell'altro secolo. «Dopo che lo stabilimento dove lavoravo fu semidistrutto dal bombardamento del 13 luglio 1943 gli uffici furono trasferiti in via Pietro Micca. Eravamo parecchie ragazze molto affiatate e tutte molto povere. Allora le nevicate erano abbondanti e i tram non potevano circolare la notte per mantenere le rotaie sempre sgombre perché c'era il coprifuoco. Un inverno via Bologna si era trasformata in una grande e bellissima dislesa di neve con un sentiero al centro e noi per quindici giorni di seguito (e in un'altra occasione per otto giorni) andammo a piedi dal Regio Parco a via Pietro Micca tra scivoloni, risate e "sghiarole". Facevamo l'orario continuato: avevano il bara- chin ma per la minestra, andavamo due per volta, a turno, con un gran pentolone al ristorante "Gli Specchi" in via Pietro Micca, che non esiste più da anni. Dopo che chiuse come ristorante diventò un caffè, dove giocavano a scacchi e a dama. Peccato che non ci sia più, era un bel posto, carico di memorie. Una volta Olga lasciò cadere il coperchio che rotolò sotto i portici: invece di vergognarci ridevano come matte. Il combustibile per il riscaldamento era scarso e costava caro. Inoltre avevamo un principale che diceva: "Prima di Natale non fa ancora freddo, dopo Natale non fa più freddo". Spesso abbiamo lavorato con il cappotto e con le mitene che sono guanti che lasciano scoperta la punta delle dita. Ogni ufficio aveva una stufetta che funzionava con legna (che dovevamo spaccare noi) e con una carbonella fine che insudiciava perfino la biancheria inlima. A volle questa stufetta, dopo averci fallo tribolare lutto il giorno, capo ufficio in testa (il nostro caro signor Onnis) cominciava a scaldare soltanto all'ora di uscita. C'erano gli allarmi aerei; una volta sola andammo nel rifugio della Slampa in via Bertela ma era troppo lontano e poi, visto che il centro non era mai stalo colpito, imprudentemente preferivamo stare fuori. Andavamo nei giardini Lamarmora in via Cernala dove c'era un fotografo con la macchina sul treppiede coperta con il panno nero. Per farci questa foto ci diceva, battendosi il dito sulla fronte e con nostro gran divertimento: "Guardate qui, guardate qui". Eravamo sempre allegre, non avevamo niente, ma avevamo vent'anni».

Persone citate: Lamarmora, Onnis