I giovani globali «A casa nel mondo» di Maria Corbi
I giovani globali «A casa nel mondo» RICERCA USA: SONO LA GENERAZIONE VINCENTE I giovani globali «A casa nel mondo» Figli di genitori che devono viaggiare molto per lavoro, «sono più intelligenti e adattabili dei loro coetanei. Cambiano spesso lingua, cultura e abitudini» Maria Corbi ROMA La loro casa è ovunque e da nessuna parte. Sono ragazzi abituati a cambiare paese, lingua, usanze, amici. Sono figli di diplomatici, impiegati delle organizzazioni intemazionali, degli uffici umanitari, di manager di multinazionali, di militari, di tecnici. Un esercito di bambini e adolescenti cittadini del mondo che aumenta continuamente le fila tanto da diventare un fenomeno degno di approfondimento. David C. Pollock e Ruth E. Van Reken hanno scritto «Third culture kids: the experience of growing up among worlds», una guida che ha coniato il nome di questa generazione parallela: TCK. E «Newsweek» gli ha dedicato un'inchiesta. Crescono con l'idea di avere una patria, spesso due, se i genitori vengono da paesi diversi. Ma poi magari parlano mèglio la lingua del paese dove sono cresciuti e dove hanno coltivato le prime amicizie. Giulio, figlio di due funzionari della comunità europea, aveva solo quattro anni quando in Messico incontrò un altro ragazzino italiano che gli chiese: «Aree you italian?». «Yes», rispose Giulio «and You?». «Me too», confermò il nuovo amico, che subito approfondì con un «where you come from?». Giulio non ci pensò un attimo e disse: «From Luxembourg and You?». «From Canada», fu la risposta. Insomma fin da piccolissimi abituati a pensare al mondo come a qualcosa di unico. A non fermarsi ai confini del paese di nascita o di quello stampigliato sul passaporto. Da subito capiscono che per sopravvivere devono socializzare, adattarsi, integrarsi. Allenarsi a convivere con tutti i tipi di cultura. Questo non significa, però, che riescano a vivere profondamente integrati nei diversi paesi. Perchè spesso la loro è ima vita «diversa», spesa tra scuole intemazionali, privilegi, megacase sovvenzionate, e questo crea inevitabilmente una distanza tra loro e i ragazzi del luogo. Così crescono protetti nel loro particolarissimo guscio insieme ai compagni arrivati da tutte le parti del mondo. Il numero dei TCKs è cre¬ sciuto velocemente e si può dire che uno dei posti dove sono in maggior concentrazione è Roma, che ospita le ambasciate presso lo Stato italiano e presso la Santa Sede. E non è un caso che qui si trovino un gran numero di scuole intemazionali. Il prestigioso Chateaubriand è frequentato soprattutto da figli di diplomatici, mentre i funzionari di organismi intemazionali preferiscono un insegnamento in inglese. Marco, 7 anni, allievo della «Rome International School» racconta la storia di una sua compagna di classe, Mirela, arrivata dal Mozambico e dopo qualche giorno perfettamente a suo agio nella classe: «Non sapeva dire niente in italiano e poco in inglese, ma dopo due giorni capiva tutto. Mi faceva ridere, perchè quando voleva spiegare che la mamma sarebbe venuta a prenderla diceva "viene ad acchiapparmi". Adesso è da due anni con noi, ma il prossimo anno se ne andrà e mi dispiace molto». Perchè la difficoltà di questi bambini che girano come trottole al seguito dei genitori in carriera itinerante è anche quella di arrivare in scuole intemazionali ma frequentate da moltissimi bambini del luogo che in cortile, tra loro, parlano nella loro lingua. Uno sforzo enorme, quindi, per riuscire a comunicare e a giocare. Un allenamento alla flessibilità e alla velocità di apprendimento dei vari idiomi che rende questi ragazzi molto particolari. Ultimamente, secondo ima ricerca fatta dalle scuole intemazionali di Roma e pubbblicata da «Newsweek», sembra che tutte le maggiori università americane e inglesi guardino a questi ragazzi TCKs con molto interesse per la loro versatilità, le capacità sociali, la larghezza di vedute e inclinazioni. Dopo il diploma in molti partono per Harvard, Cambridge, Oxford e Stanford. Fin qui il lato dorato della medaglia, quello che mostra i vantaggi di una vita con poche radici e una vasta conoscenza del mondo e delle lingue. Ma il lato «scuro?». Esistono limiti e problemi per questi ragazzi della terza cultura? Il professor Paolo Curatolo, della cattedra di neuropsichiatria infantile all'Università di Tor Verga¬ ta, riconosce i vantaggi e spiega che i problemi possono esserci soprattutto quando questi trasferimenti avvengono nei primi anni di vita e nella fase preadolescenziale. «Ci possono essere delie problematiche legate all'apprendimento o alla strutturazione della personalità. Per i bambini della scuola primaria è molto importante il rapporto con l'insegnate, che è un punto di riferimento per loro. Cambiare numerose scuole, oltre alle difficoltà legate alla lingua, può creare insicurezza e anche i bambini molto intelligenti pos¬ sono rimanere indietro». Anche l'adolescenza può essere difficile per chi non ha radici. Sono gli anni del gruppo, dei primi fidanzamenti e i ragazzi allora possono vivere un trasferimento come un dramma. «L'impossibilità di avere un gruppo di riferimen- to - spiega ancora Curatolo può creare in futuro difficoltà nell'avere legami duraturi. Il non avere radici è un grande vantaggio nel mondo del lavoro, ma può creare problemi nella sfera personale». Insomma, cittadini del mondo ma con prudenza. Già da bambini dimostrano una maggiore velocità di'apprendimento e per molti si spalancano le porte delle migliori università Il lato oscuro delle loro esistenze è il rischio di non avere legami duraturi e di maturare un forte senso di insicurezza Il mondo globale produce una nuova genrazione di giovani
Persone citate: Curatolo, David C. Pollock, Mirela, Paolo Curatolo, Rome, Stanford, Van Reken
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