La STORIA la cantiamo NOI

La STORIA la cantiamo NOI COSI LA CANZONE HA RACCONTATO PICCOLI E GRANDI EVENTI DEL '900: UN SAGGIO DI STEFANO PIVATO a Storia la cantiamo NOI La STORIA la cantiamo NOI trecci tra canzone italiana e storia negli ultimi cinquant'anni. Intrecci complessi e finora poco studiati: li affronta, da un punto di vista particolare, quello dell'uso della storia da parte della canzone, Stefano Pivato nel volume La storia leggera, in uscita per le edizioni del Mulino. L'Italia è il paese del belcanto: gli italiani (e le italiane) cantano sotto la doccia, mentre si fanno la barba o si depilano, in automobile (osservateli ai semafori) o in bicicletta, per non parlare dei luoghi pubblici e in qualche modo deputati alle esibizioni canore come le chiese, i pulmann delle gite in montagna, i locali con il karaoke, moda di origine giapponese, che da noi ha subito attecchito. Paradossalmente quegli stessi italiani disposti a sgolarsi per un Acqua azzurra, acqua chiara di battistiana memoria, sono refrattari a cantare Fratelli d'Italia, durante le cerimonie ufficiali che si tratti di calciatori o studenti in visita all'estero. Il nostro inno nazionale, come ricorda Pivato, ha avuto una vicenda travagliata, è ricco di citazioni storiche che spaziano dai romani al Medioevo, ma ad amarlo fu solo un pugno di romantici del Risorgimento ed è diventato la colonna sonora della Repubblica più per esclusione di altri brani che per scelta: certo farebbe oggi effetto, non solo a Bossi, sentire 'Osale mio, come accadde nell'immediato dopoguerra, prima di una partita internazionale (ma a spezzare una lancia in favore dell'internazionalità di questo classico napoletano c'è proprio in questi giorni il trailer del film cinese The Shower di Zhang Yang dove vecchi e giovani con gli occhi a mandorla la cantano a squarciagola). La canzone ha per gli italiani un significato particolare, fa parte della loro identità nazionale, per ciascuno è legata a un groviglio di sentimenti e ricordi, che cambiano a seconda delle generazioni. E spesso non è la canzone direttamente politica, quella che più lascia o ha lasciato il segno. Certo in Italia, a differenza della Francia, la canzone popolare, soprattutto negli anni 50 del secolo scorso, ha continuato a essere, come sotto il fascismo, uno strumento d'evasione, non avevamo allora i Brassens o i Brel, capaci di rendere il malessere d'un mondo appena uscito dalla guerra e già carico di problemi più o meno esistenziali. Da noi ci si divertiva a leggere in Papaveri e papere una leggera fronda nei confronti dell'establishment democristiano, dove certo non mancavano i papaveri più o meno alti. Poi verranno le esperienze di Cantacronache, con i Fausto Amodei, i Liberovici, gli Straniero e parolieri del calibro di Calvino ed Eco (un'esperienza forte e importante: chi non ricorda Per i Morti dì Reggio Emilia'!) e i cantautori come Tenco o Endri go, Gaber o Jannacci. E più tardi Guccini, De Gregori, Bertoli. Dalla o gruppi che si chiamavano Nomadi, Equipe '84, Rockes o Corvi. A rompere il ghiaccio più sul versante musicale che su quello dei testi c'era stata prima anche gente come Modugno o Celentano, che aveva importato da noi l'ebbrezza del rock americano. L'intreccio tra canzone e storia passa intorno al '68, anche per le canzoni di quello che si chiamava il Movimento. Spesso erano contrafacta, ossia motivi preesistenti su cui si adattavano testi nuovi: un vizio antico, frequente durante il fascismo, ma anche nella Resistenza e persino nel dopoguerra con le canzoni da oratorio. Illuminante la parabola di Bella Ciao, nata come canzone delle mondine, diventata inno partigiano, trasformata dai maoisti del '68 in Viva Mac. oggi sincopata la danzano nei cortei le ragazze no global dai visi colorati. Certo nei primi anni 70 chi andava alle manifestazioni e prendeva 1 treni per Reggio Calabria (li cantano De Gregori e la Marini nel loro recente II fischio del vapore), dormendo sui vani bagagli, è difficile che dimentichi certe canzoni, anche se a volte un po' truci («sì, sì che lo conosco, ha il manico rotondo, nel cuore d'un fascista lo pianterò a fondo»). Ma d'altronde anche chi allora diede il primo bacio al chiaro di luna ascoltando Ho scritto t'amo sulla sabbia di Franco IV e Franco I o Questo piccolo grande amore di Baglioni, difficilmente dimenti- cherà questi motivi per sempre legati alla propria storia individuale. Il libro di Pivato non rievoca gli inni dei gruppi extraparlamentari di allora (tutti ne avevano più o meno uno), in compenso spiega che a un certo punto la sinistra ha smesso di produrre inni e si è affidata alle canzoni di successo dei cantautori: così l'Ulivo, nel '96, ha scelto La canzone popolare di Ivano Fossati. Più tradizionalista, Forza Italia, nel '92, ha creato un proprio inno. Qui di contrafacta c'era forse il nome del movimento: come racconta Norman Lewis in Napoli '44, nelle campagne napoletane nei caotici mesi dopo la Liberazione c'era chi faceva comizi a nome di un partito che proprio Forza Italia si chiamava. nm di partito, canti popolari, brani di cantautori. E spesso allo stesso motivo si sono adattati nel tempo testi nuovi: «Bella ciao» è passata dalle mondine ai partigiani alle ragazze no global di oggi

Luoghi citati: Francia, Italia, Napoli, Reggio Calabria, Reggio Emilia'