Da Verdi a Gaber, l'officina dell'identità nazionale

Da Verdi a Gaber, l'officina dell'identità nazionale RAPPORTI TRA MUSICA E POLITICA, RIGOGLIOSO FILONE DI RICERCA PER GLI STORICI Da Verdi a Gaber, l'officina dell'identità nazionale Giovanni De Luna TVr ON arrossire, quando ti ''il guardo»; e poi alla fine «non si fa del male, se puro è l'amor». Da una parte Giorgio Gaber; dall'altra, in senso diametralmente opposto, Peppino Di Capri: «si sta vocca desidera 'i vase, nun è peccato». Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 furono anche le canzoni a intercettare il passaggio dell'Italia da paese agricolo a paese industriale e i cambiamenti di costume, di mentalità, di abitudini sessuali che ne derivarono. Ci sono tante canzoni nella storia; ci sono canzoni che esplicitamente raccontano la storia (quelle dedicate alla resistenza dagli Stormy Six); ci sono canzoni che «fanno» la storia (Bella ciao ma anche Era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones) e ci sono canzoni che «inconsapevolmente» diventano documenti storici, racchiudono cioè lo spirito del loro tempo e sono in grado di documentarlo, di renderlo storicamente riconoscibile. Se collochiamo ad esempio La casetta in Canada (Festival di Sanremo, 1954) nello sce¬ nario dell'Italia degli anni '50, ecco che quella canzone smette di essere solo un prodotto di consumo o un motivetto orecchiabile e diventa lo specchio di un'Italia sessuofobica e bigotta, le cui canzoni erano affollate di mamme «tutte belle», di «papaveri e papere», di «vecchi scarponi» e di tanti poveri cristi, sempre pronti a ricostruire la propria casa ogni volta che un cattivo Pinco Penco gliela distrugge, pazientemente rassegnati a lavorare senza discutere e a tollerare illimitatamente il sopruso. A spazzare via quell'Italia fu certamente la «grande trasformazione» scatenata dal boom economico, e fu anche Nel blu dipinto di blu di Modugno (Festival di Sanremo, 1958). Certamente, se restiamo nell' interno della storia della musica, questa canzone é straordinariamente innovativa per la sua capacità di coniugare l'influenza del rhytm'n'blues americano, la lezione dei Platters, con l'interpretazione di Modugno, spontanea, ricca di inflessioni regionali e molto espressiva. Ma, soprattutto, quel «volo» cantato a squarciagola diventa anche un grido liberatorio e eccitante in grado di restituirci i cambiamenti che stavano scuotendo in profondità il nostro paese. Gli storici solo da poco hanno scoperto di avere non solo occhi per vedere, ma anche orecchie per sentire. Ne è nato un rigoglioso filone di ricerca che ha avuto in Marco Peroni ( Il nostro concerto. La Nuova Italia, 2000) e Marco Gervasoni (Le armi di Orfeo, La Nuova Italia, 2002) due giovanissimi pionieri; non più la storia della canzone, ma la storia della società italiana fatta utilizzando le canzoni e la musica come documenti e come fonti della conoscenza storica. Entrambi hanno dovuto confrontarsi con un problema spinoso: trattare le canzoni scrivendone, leggere come documenti solo i testi e le parole, amputando le canzoni e le opere liriche della loro parte musicale e rischiando di naufragare in vere e proprie trappole interpretative (quando si parla dello spirito patriottico di Verdi, si citano i versi dei suoi librettisti o le armonie delle sue opere? Possono delle parole «rivoluzionarie» accompagnare delle musiche assolutamente «tradi¬ zionali»?). Il problema è stato risolto grazie alla riproduzione degli spartiti, all'attenzione alle musiche oltre che ai testi e giovandosi, (nel caso di Peroni) di una significativa esperienza radiofonica, con la radio usata proprio come straordinario strumento per coniugare parole e musica. Ma ci sono anche altre opportunità in questo incontro tra storici e musica. Una canzone dura nel tempo: Lucio Battisti viene cantato oggi da bambini di dieci anni, ma il senso delle sue canzoni è cambiato; per gli storici questi slittamenti di ricezione sono degli indicatori preziosi per capire come cambia nel tempo la mentalità e la sensibilità degli uomini e delle donne; Liliana Ellena ha recentemente documentato un esempio suggestivo di questi «slittamenti», studiando il passaggio della celebre Faccetta nera a una canzone con la stessa musica, con parole diverse e con un titolo addirittura capovolto [Faccetta bianca), una torsione che restituisce bene il clima dell'Italia fascista a cavallo del varo delle leggi razziali del 1938. E sempre rispetto al fasci- smo, gli studi sul jazz avviati dalla scuola di Luca Cerchiari hanno sfatato molti luoghi comuni, lasciando emergere un filone modernizzante che anticipa la successiva americanizzazione musicale del nostro paese. Ora questo filone si arricchisce del libro di Stefano Pivato (La storia leggera. L'uso pubblico della storia nella canzone italiana. Il Mulino, 2002) dedicato in particolare alle canzoni che intenzionalmente raccontano la storia, da Fratelli d'Italia al Cuoco di Salò. Di fatto, gli spunti forniti dal libro si rivelano utilissimi in tante direzioni. Una per tutti: oggi r820Zo della popolazione dagli 11 anni in poi ascolta musica; come ci ricorda efficacemente Pivato, i «luoghi della musica», prescindendo dalle sedi più immediatamente politiche, accanto ai «luoghi del tifo» sono quelli che più contribuiscono a costruire le identità giovanili. Entrare in quei «luoghi», conoscerli anche storicamente, vuol dire avvicinarsi a un universo jiovanile circondato da troppi uoghi comuni e spesso vittima della pigrizia intellettuale degli adulti.