Ue, il futuro è nell'economia sociale di mercato

Ue, il futuro è nell'economia sociale di mercato MA GERMANIA E FRANCIA, ARROCCATE A DIFENDERE VECCHIE PREROGATIVE. NON COLGONO I SEGNALI CHE GIUNGONO DALLA GENTE Ue, il futuro è nell'economia sociale di mercato Alexander Weber IL fatto che Francia e Germania si propongano come «motore d'Europa» è quasi uno scandalo. Perché del vecchio asse non restano ora che due vecchi paesi arrugginiti, preoccupati di difendere le loro prerogative. Vogliamo usare le parole giuste? Sono due paesi preoccupati di proteggersi reciprocamente, visto che da soli non ce la fanno più. Non so se ha ragione the Economist quando definisce la recente proposta franco-tedesca di riforma delle istituzioni europee «una ricetta per un governo confuso e debole», esattamente «ciò che i leader dei due governi nazionali più importanti dell'Unione possono desiderare: un continuo vuoto al vertice di Bruxelles». Può darsi. Ma ciò che mi pare incontestabile è che sia nei lavori della Convenzione, sia dalla loro proposta, traspaia la chiara volontà di conservare argini nazionali al ruolo unificatore del libero mercato in Europa. Né Francia, né Germania vogliono essere privati di potere e garanzie nel controllo di grandi gruppi industriali e finanziari. Quali risultati ciò stia portando, tuttavia, dovrebbe essere chiaro: le due più grandi economie europee hanno una crescita molto al di sotto del loro livello di crescita potenziale. Nel caso della Germania, la crescita manca del tutto. Gli ultimi dati sull'economia tedesca sono agghiaccianti. E non mi interessa tanto il dato del pil, cresciuto nel 2002 solo dello 0,20Zo. In fondo anche nel 2001 la crescita era stata trascurabile e solo due volte negli ultimi dieci anni il pil tedesco era cresciuto oltre la soglia del 20Zo, con ima media dell'1,3-1,40Zo annua. Quello che è terribile sono i dati dei consumi e degli investimenti privati. I primi sono calati dell'1,5%, mentre i secondi sono crollati del 60Zo. Il paese - le sue famigUe e le sue imprese - si è tirato indietro come è raramente capitato nella storia delle democrazie occidentali. E' stata un'epidemia di sfiducia generale? E' stata una crisi di allergia nei confronti del governo? E' colpa dell'euro e dei suoi rincari? Tutto ciò è stato già preso in considerazione, ma non ha dato una risposta soddisfacente. Proviamo allora a pensare a un altro aspetto: per la prima volta la Germania aveva affidato il proprio sviluppo alla Borsa, la quota di famigUe coinvolte nell'investimento azionario era raddoppiato nel giro di 4 anni e triplicato rispetto a 10 anni fa, perfino il governo di Berlino aveva varato una riforma del sistema previdenziale basato su fondi pensione privati che investivano una parte della propria raccolta in azioni. Tutto ciò era stato accompagnato dalla promessa miracolistica di una ricchezza senza fine e senza discriminazioni, grazie alla favola della new economy in cui l'intero paese si era gettato. Ebbene, tutto ciò è scomparso nel giro di pochi mesi. Le azioni della Deutsche Telekom, le prime Volks-Aktien, azioni del popolo, erano arrivate a perdere il 900Zo del loro valore. Il Neuer Markt, la fucina dei sogni tecnologici, è stato addirittura chiuso. Le stesse compagnie di assicurazione non hanno potuto mantenere le promesse di rendimento delle polizze e sono entrate in una crisi profonda. Colpa di una politica economica sbagliata? O di una crisi di fiducia nei partiti? O - figurarsi - colpa dell'euro? Niente affatto. Colpa dell'instabilità e della personalità ipertimica di Wall Street e dei suoi imitatori europei. Quale sia stato l'impatto misurabile sulla contrazione del reddito disponibile delle famiglie è difficile da dire. Anche la Banca centrale europea ha cominciato a tenere in considerazione solo da poco l'effetto ricchezza dei valori finanziari, buona parte infatti è un effetto indiretto: i risparmiatori perdono fiducia nel proprio reddito futuro anche se quello presente non cambia troppo. Qualcosa di simile, ma più complesso, colpisce anche le imprese. Quello che è successo è importante non solo per i suoi effetti macroeconomici, ma anche per quelli politici: i mercati dei capitali sono stati colpiti nella loro credibilità di nuovi canali di redistribuzione del reddito in un momento in cui la globalizzazione abbatteva i comuni confini nazionali entro cui i governi del passato creavano le premesse di accordo tra capitale * lavoro, tra imprese e sindacati. La cosa più sorprendente è che i tedeschi continuano a credere nella Borsa. Il numero degli inve- stitori è ancora vicino al 180Zo della popolazione. Sono 13,4 milioni, il cui numero - colpo di scena - è aumentato di 600 mila individui negli ultimi sei mesi, nonostante l'indice della Borsa di Francoforto sia sceso del 440Zo nel 2002. Questo voto di fiducia, quasi incredibile, e la resistenza della cultura azionaria, sono elementi che descrivono una società molto diversa dal cliché, che i politici non dovrebbero trascurare. Proprio nel ricostruire le premesse di un capitalismo di partecipazione, più stabile ed equo di quello americano, si nasconde infatti la missione della nuova «economia sociale di mercato», la ricetta che ha fatto grande in passato l'economia tedesca. Ed è così? Se ne sono dati cura a Berlino o a Parigi? Niente affatto, Schroeder sta pensando di introdurre una nuova tassa patrimoniale che colpirà inevitabilmente gli investitori di Borsa e intende insieme a Parigi estendere la sua vocazione ad alte tasse a tutta l'Unione europea. Anche per questo l'ambizione franco-tedesca di guidare l'Europa appare poco più di un cattivo imbroglio.

Persone citate: Alexander Weber, Schroeder