NUDI AL CONCORSO

NUDI AL CONCORSO PERCHE L'UNIVERSITÀ AMERICANA FUNZIONA MEGLIO NUDI AL CONCORSO Carlo Ratti SAPETE come funziona un concorso universitario negli Stati Uniti? Inviate una domanda in carta semplice, con allegate due o tre pagine di curriculum. Fate una lezione di prova. Andate al bar con un paio di professori. E alla fine, se li avete convinti, ricevete via e-mail un'offerta di lavoro. Insomma, il massimo dell'arbitrarietà. E in Italia? Non ve la cavate con meno di tre chili di documenti: certificati di laurea, diplomi autenticati, dichiarazioni sostitutive di atto notorio, articoli in originale, eccetera. Poi vi presentate a un impeccabile esame scritto, dove dovete svolgere dei temi preparati in gran segreto da una commissione giudicatrice. Quindi passate all'esame orale. E infine, a seguito dell'applicazione di un rigoroso algoritmo (tanti punti alla laurea, tanti al dottorato, tanti allo scritto e all'orale), ricevete il verdetto. Insomma, la perfezione formale. Perché allora i concorsi universitari sembrano funzionare bene negli Stati Uniti, mentre in Italia non ce ne uno che non si chiuda con sospetti, ricorsi al TAR, accuse di brogli? Perché il professore di un'università americana, che ha pieni poteri su chi far passare e chi no, sceglie di solito il candidato migliore invece di privilegiare il nipote, la cugina o l'amante? Non perche più corretto e meno corrotto del suo collega italiano. Semplicemente perché è obbligato a comportarsi in un certo modo dal sistema in cui opera, in virtù di quel principio cui fa riferimento Marco Santambrogio sulla Stampa dell'S gennaio: l'accountability. Infatti, se questo professore non sceglie i collaboratori migliori, prima o poi il suo centro di ricerca si indebolirà, avrà meno appeal per studenti e sponsor, riceverà meno fondi e, alla fine, chiuderà. Sarebbe possibile introdurre questi principi anche in Italia? Difficile, almeno fino a quando non ci saranno università davvero in competizione tra di loro, studenti pronti a spostarsi da un capo all'altro della penisola alla ricerca dell'eccellenza accademica, datori di lavoro pubblici che non valutino il titolo di studio di per sé (la laurea, con il suo valore legale) bensì il percorso formativo dello studente e la sua università di provenienza (provate a dire negli Stati Uniti che la laurea a Harvard e all'università di Roccacannuccia sono equivalenti!), enti di finanziamento che non distribuiscano i loro fondi a pioggia ma rigorosamente in base ai risultati ottenuti (ad esempio le pubblicazioni su riviste internazionali), professori che invece di considerare l'università una sinecura di origine feudale siano pronti a mettersi in gioco e rischiare addirittura il proprio posto di lavoro. Ecco perché è particolarmente interessante la proposta che sembrano lanciare all'unisono Marco Santambrogio e Raffaele Simone sulla Stampa dell'S gennaio: creiamo strutture parallele di alto livello, prendendo a mcdello gli altri Paesi europei. Non risolveremmo di botto tutti i «mali storici profondi» dell'accademia italiana, ma contribuiremmo a motivare e responsabilizzare i nostri migliori ricercatori e docenti, dando loro i mezzi per combattere ad armi pari nello spietato scenario internazionale. MIT, Boston

Persone citate: Carlo Ratti, Marco Santambrogio, Raffaele Simone

Luoghi citati: Boston, Italia, Stati Uniti