Nel Palazzo dei sospetti la sindrome del «pataccaro» di Francesco La Licata

Nel Palazzo dei sospetti la sindrome del «pataccaro» ANCHE GRASSO SCETTICO SULL'ATTENDIBILITÀ DEL COLLABORATORE Nel Palazzo dei sospetti la sindrome del «pataccaro» Il pentito Lipari, che parla di Violante e Forza Italia retroscena Francesco La Licata inviato a PALERMO IN un Palazzo che, sfuggendo alla stanca routine dei processi interminabili, rivitalizza il dibattimento contro Marcello Dell'Utri proponendo il remake del pentito Giuffrè, detto «Manuzza», la prima giornata postfestiva fa registrare uno strano clima di sospetto. E' vero che il Tribunale di Palermo ci ha abituato a tutto o quasi, ma una così accentuata sindrome del falso collaboratore non si era mai vista. C'è in giro un gran timore di polpette avvelenate, c'è il ragionevole sospetto che l'ultima spiaggia degli strateghi di Cosa nostra sia la congiura dei depistaggi. Un timore avvertito sin dalla scorsa estate, quando una nota riservata del servizio segreto civile avanzò l'ipo¬ tesi che la mafia potesse tentare di invelenire il paese con le false rivelazioni, su mafia e politica, di collaboratori «mandati». Ecco, la Procura di Palermo si trova alle prese con un personaggio mafioso, quel Pino Lipari consacrato come consigliori di Totò Riina e Bernardo Provenzano, che - offertosi per temi delicati - non convince per nulla. Anzi, appare talmente sospetto da aver indotto il procuratore Grasso a prenderne ufficialmente le distanze, fino a bloccare qualunque procedura di protezione per lui e i suoi familiari. Secondo Grasso, a Lipari mancano «genuinità e completezza, novità e rilevanza», tanto da non escludere che il «dichiarante» possa incappare negli stessi rigori in cui incorse un altro falso pentito: quel Pellegriti che indicò a Falcone il nome di Salvo Lima come mandante dell'omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella e finì incriminato per calun¬ nia essendosi rivelate, le sue «rivelazioni», immediatamente fasulle. Cosa dice, Lipari, su mafia e politica? Le dichiarazioni di Grasso parlano genericamente di argomenti che riguardano «anche importanti processi tuttora in corso di trattazione in primo e secondo grado». E aggiunge, il procuratore, che sono stati tirati in ballo «magistrati, investigatori, avvocati» e «politici della prima e della seconda Repubblica». Alcune di queste «rivelazioni», secondo un incontrollabile mix, potrebbero avere conseguenze, per così dire, positive rispetto agli interessi processuali della pubblica accusa, altri andrebbero a cozzare con quanto finora consolidato. Il dato incontrovertibile, però, sarebbe la quasi impossibilità di operare riscontri alle dichiarazioni di Lipari e la certezza che - in altre occasioni che riguardano vicende non di primo piano - il «dichiarante» ha mentito per cercare di orientare i processi nella direzione favorevole a lui e ai suoi amici. Sono principalmente il processo Andreotti e il processo Dell'Utri, le vicende sulle quali Lipari interviene pesantemente. Le indiscrezioni parlano di rivelazioni su una presunta «congiura», con tanto di incontri ed accordi, ordita in danno del senatore a vita da un team istituzionale formato dall'ex presidente della Camera, Luciano Violante, e dall'ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli. Notizie che il «dichiarante» avrebbe appreso dalla fonte privilegiata Bernardo Provenzano. Una tesi avanzata a suo tempo dallo stesso Totò Riina, già detenuto, quando parlò di una «congiura dei comunisti» e fece i nomi di Violante, Caselli e Arlacchi. Oggi apprendiamo che a divulgarla sarebbe stato nientemeno che «Binnu u trattori», e toma alla mente il percorso iniziale del «pentimento» di Giovanni Brusca, cominciato - era il 1996 - proprio con un tentativo di depistaggio che cercava di coinvolgere Violante, chiamato in causa come protagonista di un accordo con la mafia in cambio della testa di Andreotti. Il castello si sbriciolò in poche ore. Ma Lipari andrebbe anche oltre, fino a escludere qualsiasi legame tra Andreotti e Cosa nostra. A questo punto si potrebbe obiettare che è comprensibile l'avversione dei magistrati di Palermo per un «collaborante» che va ad impattare pesantemente sul processo contro l'ex presidente del Consiglio mentre ci si avvia alla sentenza d'appello, dopo un'assoluzione in primo grado. Ma una simile obiezione non terrebbe conto delle altre «rivelazioni» di Lipari - relative a Dell'Utri, Berlusconi e Forza Italia - favorevoli, invece, alle tesi dell'accusa. Il «geometra» di Cosa nostra avrebbe parlato della permaneza ad Arcore del boss Vittorio Mangano, si sarebbe dilungato sulla «nascita» di «Milano 2», co¬ struita, secondo Lipari che l'avrebbe appreso direttamente dal mafioso Mimmo Teresi (morto durante la guerra di mafial, «coi soldi della mafia del gruppo Bontade» e «con gli operai portati da Palermo». Ed avrebbe, anche, confermato una data di nascita di Forza Italia, movimento gradito a Cosa nostra (con un «ideologo» e «un impresario che metteva i soldi»), più utile alle tesi dell'accusa che l'ha sempre posta in un periodo antecedente al 1993. Insomma, un Lipari a tutto campo ma altamente velenoso e a rischio. Ora, tra i magistrati c'è chi vorrebbe «liquidarlo» per sempre e chi, invece, è tentato di insistere, nel tentativo di indurlo al «ravvedimento», che offrp una sola strada: notizie attendibili e, soprattutto, riscontrabili. Finora ncn sembra esser cambiato granché, se è vero che al processo che lo riguarda ha chiesto il rito abbreviato e non il patteggiamento, com'è uso dei pentiti. Dell'Otri nell'aula del tribunale di Palermo per partecipare al processo che lo vede imputato di concorso in associazione mafiosa