GIROTTI Italiano che non c'era di Lietta Tornabuoni

GIROTTI Italiano che non c'era Lietta Tornabuoni MASSIMO Girotti, che se n'è andato ieri a Roma a 84 anni per via del cuore, lasciando una carriera molto lunga e soddisfacente vissuta dagli Anni 40 del fascismo alla democrazia repubblicana e al brutto presente d'Italia, era bello. Bellissimo. Spesso anche buono. Blasetti, Rossellini, Visconti, Germi, Antonioni, Pasolini, Bernardo Bertolucci, i suoi grandi registi, lo hanno scelto come protagonista soprattutto per questo, per la sua bellezza cosi pacatamente italiana: la forma perfetta della faccia, gli occhi ben tagliati e un poco tristi, il naso evidente ma non invadente, le labbra turgide, i muscoli da ex campione di nuoto, l'assetto diritto delle spalle, l'espressione virile e insieme calma, anche quella intensa dignità e quella gentilezza naturale che lo hanno reso tanto amabile. Era bello nella seminudità fantasy di giovane eroe che giostra accanto al Re ne La corona di ferro ( 1941) di Blasetti, nei giubbotti aviatorii di Un pilota ritorna ( 1942) di Rossellini. Ma è in Ossessione (1943), primo film di Luchino Visconti, che la sua bellezza diventa personalità: la canottiera slabbrata, il vecchio cappello di feltro dalla falda ondulata o il berretto marinaresco sono gli addobbi di un amante popolano a cui non si resiste e che non resiste alla passione, di un irregolare socialmente indeterminato, di un uomo errante, senza lavoro né fissa dimora né legami affettivi, aperto al rischio e ad ogni avventura. Un personaggio di vagabondo letterario all'americana però mosso dalla forza dell'eros, in totale contrasto con la rispettabilità rurale e piccoloborghese dell'epoca italiana: affascinante. La personalità di Massimo Girotti acquista in Cronaca di un amore (1950), primo film diretto da Michelangelo Antonioni, lo spessore di una crisi esistenziale che appartiene ai giovani europei del tempo: col suo cappottino ambizioso così misero accanto alle grandi pellicce di visone o di leopardo di Lucia Bosé, con la sua smarrita mitomanìa da dopoguerra, con la sua sensualità strumentale e il suo arrivismo da vinto, il protagonista del film appare, ha scritto Carlo di Carlo, «il prodotto sociale della borghesia milanese su cui già si intravede l'ombra del miracolo economico, incapace di reagire al proprio disfacimento morale». In teatro con Visconti, accanto a Gassman, nonostante le lunghe tournées, non si è mai realizzato come nel cinema. Era bello, Girotti, come dovrebbero sempre essere belli gli eroi positivi: il giovane magistrato arrivato in Sicilia per affrontare la mafia, interpretato senza enfasi ma con forza in in nome della legge (1949) di Pietro Germi; il patriota marchese Roberto Ussoni che affida alla inaffidabile contessa Livia Serpieri il danaro raccolto per sovvenzionare la cospirazione antiaustriaca e la richiama invano agli impegni di lotta in Senso (1954) di Visconti; l'emblematico industriale milanese che abbandona tutto quanto possiede e se ne va nudo per il mondo nel metaforico e metastorico Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini. Ma, dopo Senso, il lavoro di GIROTTI Italiano che non c'era Con Silvana Pampanini in «Un marito per Anna Zacched» (1953) di Giuseppe De Sanctis Mei panni dell'antico romano in «Fabiola» (1948) di Alessandro Blasetti. Questo film aprì per Girotti il ciclo dei «peplum» A 84 ANNI E MORTO UN ATTORE DOTATO DI GRANDE FASCINO: DA BLASETTI A VISCONTI A GERMI UNA CARRIERA TRA GRANDI MAESTRI E CINEMA POPOLARE Massimo Girotti cosi come appariva in un ritratto del 1945 Girotti diventa più usuale sotto la direzione di registi meno importanti: aveva già fatto film popolari [Il tenente Giorgio, Vortice, Disperato addio), ora non mancano i film mitologici, storie dì giganti della Tessaglia e di Argonauti, di Cesari e dì Romolo e Remo. Dopo Teorema, Pasolini lo vuole dì nuovo in Medea (1969) nella parte del re dì Corinto Creonte, che ordina alla barbnra Medea di lasciare la città; in seguito lo vogliono nei film per la sua bravura, ma soprattutto perché la sua presenza diventa un totem, l'immagine di un cinema storico che non c'è più, l'omaggio che vuol testimoniare nostalgìa, rispetto, affetto. Così Bernardo Bertolucci lo sceglie per una piccola parte (recitata da Girotti con grande delicatezza) in Ultimo tango a Parigi (1972) e anche Roberto Benigni gli affida il personaggio di un vicino dì casa molto composto ne II mostro ( 1994). Il tempo non lo ha privato della sua bellezza mutatasi in una nobiltà spiegazzata e dolce; per il timore di mostrare la fragilità della vecchiaia, ha assunto un'autorità fisica e rigida da ambasciatore o da ammiraglio; la faccia non ha perduto con gli anni la propria luminosità. Sino alla fine è un uomo incantevole, con il quale tutti lavorano volentieri ammirandone il tratto cortese, la capacità di occultare un orgoglio terribile, la mancanza di ostentazione, la nessuna indulgenza o compiacenza verso il passato con i suoi successi, l'assenza assoluta di rancori e dì lagnosìtà. Se Massimo Girotti ha rappresentato nella sua carriera d'attore durata oltre sessantanni un italiano ideale, bellissimo e buono, ha impersonato anche un italiano che forse non c'è, che forse non c'è mai stato. Con «Ossessione» offrì il ritratto di un amante popolano che non resiste alla passione e a cui non si resiste. L'ultima volta sullo schermo nel «Mostro» con Benigni

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